(Marcello Veneziani) – Com’è finita poi con la spigolatrice di Sapri? Si è raggiunto un compromesso tra chi difendeva la statua col maestoso posteriore, inaugurata dall’ex premier Giuseppe Conte e le vestali indignate del femminismo che ne esigevano la rimozione? Le ipotesi sul campo sono tre: 1) passato il bla bla bla femminista e la scomunica del duo Boldrini-Cirinnà della statua oltraggiosa perché seducente, la spigolatrice resta lì com’è, a “miracul mostrare”, il giudizio è rinviato: ai posteri e ai posteriori l’ardua sentenza; 2) viene accolta la richiesta di censurarla per l’indegno posteriore che mortificherebbe la condizione femminile ed eventualmente sostituirla con una spigolatrice coerentemente insulsa o ripugnante, fiera del suo racchiume che dissuade ogni metoo o catcalling retroattivo; 3) si raggiunge un compromesso del tipo: la statua resta ma diventa un mezzobusto, perché dalle chiappe in poi viene fatta rientrare dentro un basamento, un cartongesso che la rende una figura eroticamente innocua e casta. I democristiani di una volta avrebbero proposto una soluzione del genere: ricordate le 66 statue di Atleti olimpionici, al Foro Italico chiamato un tempo Foro Mussolini, con gli organi sessuali ritenuti osceni, coperti con una foglia di fico per volontà democristiana? La stessa cosa è accaduta di recente ai Musei Capitolini per la visita del presidente iraniano Rouhani. In giro non si usa più il pudore, solo alle statue tocca rivestirsi…

Sulla statua vorrei osservare due tre cose e poi cercare di fare un discorso più generale. La prima: quella statua dedicata a una poesia è in effetti un po’ gratuita, risponde non alla storia, alla letteratura e allo spirito risorgimentale ma alla pro-loco; e quel posteriore così procace è una civetteria attrattiva che sembra poi il perno intorno a cui ruota la figura e che oscura il messaggio storico, patriottico e sociale.

Aggiungo che in verità la mortificazione prodotta da quella statua così avvenente non è solo e non è tanto delle donne, ma del poeta Luigi Mercantini che le dedicò i versi, di Carlo Pisacane, “il bel capitano” che la incontrò e del Risorgimento tutto, a partire da quei “trecento giovani e forti” che sono morti, al seguito di Pisacane, cantati dalla poesia. Di tutto questo alla fine resta solo il culo di una donna; non è un omaggio alla storia, ai suoi protagonisti e alle sue comparse, spigolatrice inclusa, ma una furba presa per il medesimo. Comunque, peggio di una statua un po’ trash e lievemente, vagamente offensiva, è il proposito bigotto, repressivo, tardo-borbonico e tardo-giacobino al tempo stesso, di rimuoverla. La grottesca buoncostume del femminismo isterico e censorio riesce a riabilitare perfino una statua oggettivamente un po’ volgare e fuorviante della “speculatrice di Sapri”.

Ma qui s’innesca un discorso più generale sulle statue. Da alcuni anni è ripresa la mania delle statue per ragioni che di storico o di artistico hanno poco e nulla. Era il vezzo dello storicismo passato, era la mania celebrativa dell’Italia postrisorgimentale e poi umbertina e guerresca. Dal secondo dopoguerra in poi andò scemando. Invece di recente c’è stata un’impennata, quasi per risarcire la perdita di senso storico e di memoria storica e per usare un pezzo del passato come simbolo, icona, totem nella lotta politica. Il grosso ruota sul tema antifascismo e Resistenza. Le ideologie e la politica da tempo cercano risarcimenti simbolici nella toponomastica, nei monumenti o nella loro distruzione.

Così c’è stato un pullulare di statue, di cui vorrei distinguere almeno tre filoni indecenti. In primis, le statue con il falso storico, come quella che fu dedicata ad Aldo Moro nella sua città natale, Maglie, con lo statista democristiano ucciso dalle Brigate rosse che portava sotto braccio una copia de l’Unità, quotidiano del Partito Comunista. Non il Popolo organo della Dc, ma l’Unità. Per celebrare la volontà di compromesso storico e far passare la falsa storia che Moro fosse alfiere del comunismo, nonostante fosse vittima dei terroristi che lo avevano rapito e ucciso nel nome dello stesso comunismo.

In secondo luogo, l’erezione di statue brutte, malfatte, deformi. Come per esempio la statua di Papa Giovanni Paolo II alla stazione Termini di Roma, dove la testa e il busto sono montati su un assurda tenda indiana aperta davanti che vorrebbe significare la sua tonaca aperta a tutti, accogliente. L’impressione è inquietante, come quella del maniaco sessuale che apre l’impermeabile e magari fa proposte oscene a passanti o bambini. È comunque sgraziata la sua figura, brutto il volto, il contrario di quel Papa in cui splendeva già nel volto la bellezza della verità (splendor veritatis).

In terzo luogo, l’avvento delle statue insensate, dedicate a personaggi dello spettacolo, della tv e della vanity fair. Ad esempio la statua che fu dedicata a Manuela Arcuri a Porto Cesareo, nel Salento. Il corpo dell’Arcuri, formoso, procace, si prestava a farsi meta di attrazione guardona. Dedicare un monumento di pietra leccese, a qualcosa di così labile e fuggente come la fama cine-televisiva, al suo mondo fatuo e rivolto a un’utenza scadente, significa tradire il significato proprio di una statua, che è fermare in un ricordo di pietra personaggi, eventi, simboli della storia di un popolo o dell’umanità.

Sono poi cresciute a dismisura le statue di genere, dedicate ad astratte categorie: i migranti, le donne, le vittime del lavoro o di una sciagura, perfino gli animali.

La casistica potrebbe allargarsi a dismisura, e anche le tipologie potrebbero estendersi a numerosi mostricciattoli, brutture, banalità, in cui l’immagine reale del soggetto lascia il posto a “come l’ha visto” l’artista, e al suo messaggio, sempre correct. Tutto sommato l’unica funzione storica di queste statue pullulanti in Italia è mostrare ai posteri come era miserabile il nostro tempo. Una testimonianza che si potrebbe riassumere così: ricordati di dimenticarci.

La Verità