(Roberto Saviano – corriere.it) – E ora? Avevo solo 26 anni, solo 26 anni quando tutto è accaduto. Cosa facevate voi a 26 anni? Ricordate? Si, mi prendo un dannato momento per poterlo gridare che avevo solo 26 anni, maledizione, avevo solo 26 anni quando tutto è finito. Quando mi hanno inscatolato in una blindata, quando tutto si è trasformato in una guerra di posizione. Lo faccio ora che leggo le motivazioni della sentenza che ha condannato il boss Bidognetti e l’avvocato Santonastaso per minacce mafiose. Leggo le pagine redatte dai giudici della quarta sezione penale del Tribunale di Roma, leggo le parole firmate da Roberta Palmisano la presidente del collegio, che dimostrano che fu una strategia dei boss casalesi — e di Francesco Bidognetti nello specifico — quella di intimidire, mandando un messaggio all’esterno per metterti un bersaglio sul corpo. Mi verrebbe da urlare — a tutti quelli che in questi anni hanno speculato sulla scorta alla quale sono costretto da quindici anni, a tutti quelli che mi hanno accusato e mi accusano di infangare la Campania e il meridione, perché ne ho raccontato e ne racconto la ferita — avete visto, bastardi, che non era una messa in scenaun escamotage per avere successo, magari per comprare il fantomatico attico a New York. Io sono uno scrittore. Io del mio guadagno e delle mie storie avrei comunque fatto vita.

Ho l’anima ustionata

E invece di questa vita mutilata cosa me ne faccio? Cosa dannazione me ne faccio? Dovrei metterli in fila davanti a queste verità che ora sono chiare scritte e timbrate, quei bastardi? Ricordo ogni loro nome, ogni loro ghigno, ogni dolore che mi hanno causato. Cosa dovrei fare? Accusarli? Sputargli in faccia o magari provare a convertirli all’empatia? Chiedere le loro scuse? Avrebbe senso se fossero stati sinceri; ma mentivano sapendo di mentire. Nulla ora ha senso. Il dolore subito è stato enorme.

F ingo da molto tempo d’essere ignifugo ma ho l’anima completamente ustionata. Ricordo tutte le volte che io e Rosaria Capacchione abbiamo dovuto sentire l’orrida schifezza: «Chi ti vuole uccidere ti uccide subito, non dite cazzate»; e noi dovevamo quasi scusarci di essere in vita, chiedere perdono per non aver (ancora) gettato il sangue sull’asfalto. Tutti diventano esperti, ma non sanno nulla, perché le dinamiche criminali abbisognano di uno studio profondo. Le esecuzioni camorristiche, le minacce, le uccisioni obbediscono a logiche complesse: dovreste passare un mese a parlare con Rosaria Capacchione per provare solo lontanamente a capire cosa significa essere pedinati, poi querelati, poi ti entrano in casa, poi fanno riferimento al tuo intimo, e poi i proiettili, e poi le mezze voci, e poi nulla, poi ancora nulla… E poi tornano. Ma cosa dannazione ne sapete. Sono strategie difficili da comprendere, complicatissime da prevedere, e ancor meno da condividere in pubblico. A loro bastava dire: ma figurati! Se volevano farlo davvero l’avrebbero già fatto. Come se fossero onnipotenti i clan e non osservassero invece in che posizione si trova il proprio obiettivo. Eppure, esattamente come tutti si sentono allenatori della Nazionale, tutti, quando parlavano della mia vita, diventavano esperti di mafia.

Augurarsi la morte

Sarebbe forse stato meglio se mi avessero ammazzato. L’ho pensato, lo penso ancora. Sono ancora in tempo risponderebbe qualcuno. Ma chi te’ pens , i soliti ne farebbero eco. Nemmeno riesco più a ricordare? Avevo 26 anni e ora ne ho 42. Vivere sotto costante artiglieria ti fa vivere nella paura della morte? Magari. Ti fa augurare la morte. Alla protezione devi associare la fama, la visibilità, l’aver deciso di prendere parte all’agone. Vivi la delegittimazione, l’osservazione continua in chi cerca l’errore per far cadere le tue tesi, il tuo impegno; occhi che spiano, sguardi che registrano, politici che misurano la propria campagna elettorale su di te. E poi l’orrida invidia delle ciurme di mestieranti: invidia di cosa poi, di questa merda? Le piazze piene? I teatri tracimanti di persone? I milioni di libri venduti? La credibilità internazionale? Prendeteveli, maledetti bastardi. Ma debbo confessare, dopo tanti anni, la mia ingenuità. L’ingenuità di credere che si potesse cambiare raccontando, mettendo insieme parole; e che le persone potessero decidere di aggiungere le proprie parole alle mie, e iniziare una trasformazione vera del presente. Quanta fragile ingenuità.

Avevo 26 anni

Molte cose sono cambiate, vorrei gridarlo che moltissima luce è stata fatta e che ogni pagina scritta e letta è stata una torcia. Ma non riesco a crederci per davvero. E ora che sono davanti a questa sentenza, ora che leggo le motivazioni che tracciano le ragioni della mia sofferenza, della mia non vita, che faccio ? Provo a spiegare cosa furono quelle minacce? Provo a registrare in breve cosa — e quanto — voleva dire quel maledetto proclama letto in un Tribunale e che ha peggiorato la mia vita, che era già blindata?
L a strategia era quella di mettermi a tacere, in qualsiasi modo. Il messaggio fu semplice: se la Corte d’Assise d’Appello confermerà le condanne emesse nel primo grado del processo Spartacus, colpiremo chi ci ha tormentato da decenni in Campania senza mai desistere (e spesso da sola!), colpiremo Rosaria Capacchione. E colpiremo chi aveva acceso la luce e ci ha fatto «andare in America» (come disse il boss Antonio Iovine, nel corso del suo esame durante il processo che si era tenuto a Napoli), colpiremo Roberto Saviano.

La traduzione doveva essere chiara solo a chi intendeva, come sempre è la semantica mafiosa; comprensibile per chi deve intenderla, ma allo stesso tempo oscura, proprio per poter sempre sostenere di aver detto tutt’altra cosa. C hiara per pochi, incomprensibile per i più. È la prassi esoterica perenne della sintassi mafiosa. Quel documento voleva dire: con gli ergastoli sulle spalle noi non temiamo di colpire. Avrebbe dovuto temere lo Stato. Se ve li ammazziamo, chi perde la faccia? Chi perde le elezioni? Chi perde carriera? Non noi. Spostate il processo, rivedete le condanne, ammorbidite le pene e noi li risparmiamo. In caso contrario vi abbiamo avvertito.

Lo capirono a Napoli l’allora sostituto procuratore della Dda Antonello Ardituro, che condusse le indagini, poi il sostituto Alberto Galanti, che ha sostenuto l’accusa nel processo tenutosi a Roma. E ora che vi ho raccontato quanto è accaduto cosa cambia? Avevo solo 26 anni, questo penso. E mi disprezzo per non aver saputo salvare la mia vita; per non essere stato in grado di mollare senza rilanciare, quando ancora potevo farlo. P er non aver taciuto, per aver continuato a lottare. Oggi mi accorgo che più si parla di potere criminale e più questo Paese ha vergogna. Dinanzi a questa viltà, a questo non sapere — e volere — agire e a questo non sapersi unire, durante tutti questi anni, la soluzione è stata spesso dire, e scrivere, che ero io il pagliaccio, come mi appellò don Nicola Schiavone a Casal di Principe. La scorciatoia è stata vomitare che ero io l’errore e che queste cose sempre ci sono state e per sempre ci saranno.

Non sono un eroe

Perché è stata permessa una tale schifezza? Io non sono un eroe, non mi sono mai sentito un eroe: gli eroi sono solo morti. Vorrei solo insozzarmi nella vita e immergermi negli errori, nelle cazzate. Vorrei smettere di essere il bersaglio privilegiato di quella massa di lestofanti che per negare una tua presa di posizione o anche una tua idea non sono capaci di farlo argomentando, criticando. Devono cercare il lercio, l’errore, il buco nel calzino, l’unghia sporca. E ora che ci faccio con questa sentenza? Cosa ci faccio con la verità processuale? Se avessi modo, vorrei solo carezzare uno per uno il viso di chi c’è stato, di chi c’è, di chi legge e di chi mi ha difeso. Sussurrare che mi hanno salvato la vita o quel che ne rimane. Dire a queste lettrici, a questi lettori, a chi mi ha dedicato un pensiero, un post, persino una preghiera, che devo tutto a loro. Tutto? Non tutto, ma la parte buona: quello che di me non è peggiorato, non è diventato cinico, non è incattivito, non è crollato al cospetto della delusione.

E ora cosa mi rimane? Aver avvelenato la vita di chiunque mi fosse accanto in qualsiasi forma e che io non sono stato capace di difendere da quello che provavo e dalle scelte che facevo. Mi chiedo perché sto condividendo questi pensieri con voi, anche se oramai non ci credo più che per me possa cambiare qualcosa? Perché lo devo ai miei carabinieri, che in questo istante sono davanti a me, silenziosi, e che non capiscono oggi qual è il dolore del giorno: se un mio cedimento, la tensione di una lotta o chissà cosa. Ma ci sono e basta. E mi sopportano. E mi chiedo quanto deve essere pesato anche a loro vivere blindati con me, sentendo quest’infinito cachinno addosso ma con la necessità di dover presidiare ogni spazio. E ora? Ora non faccio proprio nulla. Quello che ti è stato tolto non torna più, inutile pensare che ci sia il tempo di rimediare. Non sono in grado nemmeno di dirmi che ne è valsa la pena. Non torna più nulla. Avevo solo 26 anni e ora se potessi chiederei solo di camminare libero. Null’altro.