(Silvia Turin – corriere.it) – Venerdì in Usa un comitato scientifico consultivo della Food and Drug Administration (FDA) ha raccomandato il ricorso alla terza dose di Pfizer per persone con più di 65 anni o fragili a partire dai sei mesi dopo la seconda dose. Il comitato non ha ritenuto, per il momento, di estendere la terza dose a tutti, come avviene invece, ad esempio, in Israele.

Qualche ora prima della raccomandazione i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) hanno pubblicato alcuni dati che indicano che il livello di protezione contro i ricoveri offerto dal vaccino Pfizer diminuisce nei quattro mesi successivi alla vaccinazione completa: una delle ragioni che ha spinto verso la terza dose (qui tutto quello che sappiamo sul’efficacia del richiamo).

I risultati nel prevenire le ospedalizzazioni

In particolare, da due settimane dopo la seconda dose Pfizer a quattro mesi dopo, i riceventi sono stati protetti da ospedalizzazione al 91%; oltre i 120 giorni, invece, l’efficacia del vaccino contro i ricoveri è scesa al 77 per cento.

Il vaccino Moderna non ha mostrato una diminuzione comparabile nello stesso lasso di tempo: dopo quattro mesi l’efficacia contro la malattia grave è stata valutata al 92%, un livello praticamente identico alla sua efficacia prima di allora (del 93%). (Qui l’articolo nel quale si parlava di efficacia e durata dei vaccini Pfizer e Moderna).

In Usa è autorizzato anche un terzo vaccino, il monodose Johnson & Johnson, la cui efficacia nel prevenire i ricoveri ha fatto registrare il 71% complessivo.

Lo studio ha preso in considerazione 3.689 adulti senza condizioni di immunocompromissione, ricoverati in 21 ospedali statunitensi in 18 Stati dall’11 marzo al 15 agosto e altri 100 volontari sani arruolati in tre ospedali 2-6 settimane dopo la vaccinazione completa.

Il vaccino Moderna ha anche prodotto livelli di anticorpi post-vaccinazione più elevati rispetto agli altri due vaccini.

Come si spiegano le differenze

Altri studi hanno dimostrato che l’efficacia di Pfizer contro il ricovero è rimasta al di sopra del 90%, nonostante la diffusione della variante Delta: le analisi non sono concordi.

La protezione complessiva contro l’ospedalizzazione comunque rimane alta: ma come si spiegano le differenze tra i vaccini?

Intanto il vaccino Pfizer è stato spesso distribuito prima o comunque a persone più deboli, tutti fattori che potrebbero aver influito sui calcoli dell’efficacia.

Poi sono state fatte alcune ipotesi per spiegare i migliori dati di Moderna: la sua protezione potrebbe durare più a lungo perché la sua dose di mRNA — il codice genetico che insegna al sistema immunitario come riconoscere la proteina spike del coronavirus — è tre volte maggiore rispetto a quella di Pfizer.

Un’altra variabile importante potrebbe essere il tempo trascorso tra le due dosi, con quattro settimane raccomandate per Moderna e tre settimane per Pfizer.

I vaccini contro il Covid sembrano essere stati tutti più efficaci nei Paesi che hanno applicato intervalli di tempo più lunghi, come il Regno Unito e il Canada, rispetto a Stati Uniti e Israele.

E in Italia?

L’efficacia vaccinale dipende anche dalle definizioni di «caso grave» e tantissimo da quanto il virus circola in un Paese: dove non ci sono misure di mitigazione e pochi vaccinati, il virus comunque contagia di più e una percentuale dei contagiati sono anche persone vaccinate che possono (in misura seppure minore) finire in ospedale.

In Italia i dati dell’ultimo monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), pubblicati venerdì, mostrano numeri migliori: un’efficacia contro le ospedalizzazioni dei vaccini del 93,1% e contro il ricovero in terapia intensiva del 95,4% (periodo 4 aprile-12 settembre).

Non ci sono dati scorporati per singolo vaccino, ma in Italia si è somministrato in larga maggioranza Pfizer: oltre 58 milioni di dosi già somministrate, contro 10 milioni circa per Moderna, 12 milioni per AstraZeneca e poco meno di 1 milione e mezzo per Johnson & Johnson.