(Marcello Veneziani) – E venne infine il giorno fatidico di Dante. Dopo un anno di rievocazioni d’ogni tipo, arriva quel 13 settembre, o meglio quella notte di sette secoli fa, in cui Dante andò davvero nell’Aldilà. Non possiamo dire che il suo anniversario sia passato inosservato. Nel sesto centenario, il 1921, Gabriele d’Annunzio si rifiutò di parlare a una celebrazione dantesca dicendo: “Oggi in Italia non può parlar di Dante che un ministro, un professore, o un imbecille. Ed io, grazie a Dio, non appartengo a nessuna di queste tre importanti categorie”. Non appartenendo alle prime due, non vorrei appartenere alla terza, avendo scritto un libro su Dante nostro padre, che sto portando nei luoghi danteschi…Dante, il più italiano dei poeti, il più poeta degli italiani, eppure così universale. Ora che l’anno dantesco volge alla conclusione proviamo a fare un bilancio in poche righe dell’immenso lascito dantesco e poi del suo punto focale.

Qual è la lezione umana, civile, morale che Dante lascia in particolare ai potenti, ai dotti e ai sacerdoti? Dante insegna ai potenti e ai regnanti, con l’esempio oltre che con le parole, la fierezza, la coerenza, l’onore, categorie calpestate nel nostro tempo ma a essere onesti anche nel suo, considerando la veemenza con cui li attaccò, pagando un prezzo altissimo. Dante insegna l’importanza di essere all’altezza di una tradizione e dell’auctoritas che si incarna; non c’è per lui potere senza carisma, né dominazione benefica senza legittimazione sacra. Imperativi incomprensibili nel nostro tempo.

Ai dotti, o chierici, che nel nostro tempo chiamiamo intellettuali, Dante – che era uno dei loro – insegna che il coraggio delle proprie idee vale almeno quanto le stesse idee. Quel che si è disposti a rischiare per le proprie idee mostra la grandezza di chi le professa come la sostanza delle stesse idee. Fu dantesco Ezra Pound quando coniò quel motto che è il blasone della migliore militanza ideale: “chi non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui”. A volte, aggiungo, entrambe le cose. Dante insegna che l’impegno civile grandeggia se è posto al servizio di una visione del mondo, di un orizzonte trascendente e spirituale oltre l’umano, lo storico e il personale.

Infine agli uomini della Chiesa Dante ricorda che religioso non coincide con clericale, la fede non è sottomissione a un potere, sia esso sacerdotale, cardinalizio o papale; e la legittimazione spirituale della potestas politica, nella forma più alta dell’Impero, non deriva dalla Chiesa ma direttamente da Dio. Prima di Machiavelli Dante rivendica l’autonomia spirituale della politica; non da Dio o dalla morale, ma dal potere clericale.

La lezione di Dante ai potenti, ai dotti e ai sacerdoti si estende per gradi a tutta la società e a tutti i tempi. Una lezione di dignità tramite la bellezza dei versi, la profezia delle visioni, l’ordine simbolico nelle sue figurazioni.

Ma qual è, dicevo, il punto focale di Dante e della sua opera? Dante è il poeta della Luce. Tutto il suo cammino nella scrittura e nell’aldilà è un itinerario della mente verso la luce. Da luce deriva, in ultima istanza, lo stesso etimo di Dio. Beatrice è luce, il Paradiso è luce, gli angeli, i santi, la Madonna e infine lo Spirito divino sono luce; la visione profetica è luce; e il purgatorio è ricerca di luce, come l’inferno è luce nera, di fuoco e fiamma, casa di Lucifero. Il cielo è la luce e la terra è l’opaco, gli insegnò San Bonaventura e la luce è “inter omnes…sensibiles affectus spritualior” gli ricordò San Tommaso. La luce è perfezione e le tenebre sono l’errore. Dante capovolge la nostra cupa visione del medioevo come oscurantista; in lui rifulge “la luce del medioevo” per citare un’opera di Régine Pernoud.

La sua visione è pittorica e il gioco di luce e ombra ne è la chiave; “pintura in tenebrosa parte, non si può mostrare né dar diletto di color né d’arte” scrive nelle Rime. Dante dipinge i regni dell’oltretomba, dal fuoco dell’inferno, al lume del purgatorio fino alla luce divina del paradiso. Ottimo commento al Paradiso “approdo all’ultima luce” ha pubblicato di recente Franco Ricordi da Mimesis (è il terzo volume della sua Filosofia della Commedia di Dante): il paradiso è il luogo dantesco per eccellenza e non l’inferno come avevano insegnato da De Sanctis in poi.

L’inferno è “l’aere sanza stelle”, “quell’aere grosso e scuro”, “d’ogni luce muto”, “’l più basso loco e ‘l più oscuro”: è il regno delle ombre, e l’ombra – sentenzierà poi Leonardo – “è di maggior potenzia che il lume”. “Così sen vanno giù per l’onda bruna”, la riva dell’Acheronte avvolta nella caligine, l’abisso. Anche le anime dannate, sono definite “l’anime più nere” perché la loro dannazione è la distanza abissale dalla luce. E i diavoli sono “neri cherubini”, negatori della luce. “lo fondo è cupo”, “noi fummo giù nel pozzo scuro”. L’uscita dall’inferno è la riconquista della luce: “lo duca e io per quel cammino ascoso/ intrammo a ritornar nel chiaro mondo”. Il purgatorio è contrassegnato dalla luce terrestre e solare, “dolce color d’oriental zaffiro” “tosto ch’io uscì fuor de l’aura morta che m’aveva contristati gli occhi e ‘l petto”. Catone gli appare in purgatorio tra “li raggi de le quattro luci sante” che “fregiavan si la sua faccia di lume” al punto da abbagliare Dante. Qui il sole sorge e fiammeggia.

Poi il Paradiso, il trionfo della luce, “l’aere luminoso”, la visione di Beatrice “luceano li occhi suoi più che la stella”; lucerne e lumi divini sono le anime beate, “con tanto lucore… m’apparvero splendor dentro a due raggi”. Gerarchie di luce denotano il paradiso, la vita spirituale sorge “con la luce”; il fiore che sboccia in paradiso è luce che piove dall’alto. Anche in paradiso ci sono fiamme ma sono ali d’oro, splendore e fulgore in paesaggi di luce. “O eterna luce che sola in te sidi, sola t’intendi”. Dante è sete di Luce, ascesa alla Luce. Dal nostro tempo dista anni luce.

La Verità