(Marcello Veneziani) – Cent’anni fa di questi tempi, nasceva al sud la più grande impresa di soccorso e pietà per i malati di mente. A fondarla fu un sacerdote con la “capa tosta” che la gente del suo paese chiamava Zi’ Terrone per le sue origini agricole.

Partiamo dalla storia. Per cominciare, è esistito, un meridionalismo cattolico? A parte don Sturzo e il suo discorso politico a Napoli nel 1923, i cattolici furono poco presenti nella battaglia meridionalista, anche per l’estraneità/ostilità della Chiesa allo Stato unitario e all’ideologia laicista del filone meridionalistico. Esiste però un meridionalismo pratico, concreto, non intellettuale o ideologico, di matrice cristiana e cattolica, fondato sulle opere. Un esempio venne da quel sacerdote del profondo Sud, con la caparbia concretezza e il generoso attaccamento alla terra: si chiamava don Pasquale Uva, era nato a Bisceglie, in Puglia, nel 1883 ed è morto nel 1955, poi beatificato.

Il nome dice poco a chi ha studiato la questione meridionale: eppure è uno tra i rari meridionalisti fattivi. Don Uva è il Cottolengo del Sud. Fu proprio la lettura dei due volumi di don Cottolengo a convincere il sacerdote pugliese che anche al Sud si potesse realizzare quanto era stato realizzato a Torino, anche se in un ambiente meno disponibile e meno facoltoso. Prima che don Uva operasse in quel campo esisteva in tutto il Mezzogiorno un solo ospedale psichiatrico, a Nocera Inferiore. Per i malati di mente si aggiungeva al dolore dell’emarginazione e dell’internamento, anche il dolore dello sradicamento dalla propria terra d’origine, l’allontanamento dal proprio paese e dalla propria famiglia. Fondare un manicomio in quel tempo era un’amorevole premura: voleva dire togliere dalla strada e dalla miseria i malati di mente, proteggere loro e la società, sollevare le famiglie. Poi vennero gli abusi e gli orrori in molti manicomi.

Quando don Uva progettò la sua opera di carità, a mezzo secolo dall’Unità d’Italia, il Sud sprofondava in una grave depressione; avvilito nella sua identità storica e culturale, abbandonato sul piano sanitario, costretto all’emigrazione. Davanti a questo scenario si levavano le coraggiose voci di alcuni intellettuali del Sud, che sollevarono la Questione Meridionale. Ma in questa nobile e sparuta schiera di meridionalisti la denunzia si perdeva nelle nebbie delle astrattezze e dell’utopia. Per loro il male del Sud, il suo peccato originale, era la sua tradizione, la sua cultura, la sua religione, il suo legame con il passato. Quanto più teorizzavano il riscatto del Sud, tanto più ipotizzavano un Mezzogiorno separato dalle sue radici, alienato, sul modello del Nord protestante. Il male del sud era per loro la mancata Riforma, religiosa e civile. Per la loro cultura laico-illuminista, il Sud per modernizzarsi avrebbe dovuto liberarsi dai suoi legami tradizionali e religiosi. Ma quel modesto sacerdote di campagna, radicato in quell’humus «arcaico», religioso e contadino del Sud, smentì coi fatti la loro ideologia. Dapprima in solitudine, privo di sostegni, don Uva riuscì dopo un lungo peregrinare per le strade del Sud, alla ricerca di aiuti, a creare cento anni fa le basi per un autentico impero della Pietà. Si deve alla sua iniziativa la nascita nel Meridione di una catena di istituti di assistenza psichiatrica, denominata Casa della Divina Provvidenza che non ha eguali nel Mezzogiorno e in Italia. Cinque grandi complessi creati dal nulla a Bisceglie, Foggia, Potenza, Palestrina e Guidonia, circa 80mila infermi accolti, tra dementi e frenastenici assistiti nell’arco di mezzo secolo; migliaia di infermieri, centinaia di medici e di operai, decine di suore impegnate a coadiuvare l’opera del Padre Uva. Altri progetti fervevano nella mente di don Uva quando scomparve: insediamenti a Benevento, a Cosenza, in Sicilia, dove l’opera del sacerdote fu invocata. La Casa della Divina Provvidenza fu un organico progetto per l’assistenza sanitaria e psichiatrica nel Sud. Don Uva progettò il villaggio post-manicomiale, che sarebbe sorto nei pressi di Varano; una felice intuizione che precorre di alcuni decenni l’idea di superare i vecchi manicomi. In questa struttura i pazienti, avviati a un tipo di economia quasi «autogestita», avrebbero lavorato (ergoterapia), in un ambiente deospedalizzato; niente corsie e sterminati padiglioni, non personale in camice, ma piccole costruzioni immerse nel verde, molti luoghi di lavoro e di ricreazione (ludoterapia), personale sanitario integrato tra i degenti. Don Uva pensava di immettere gradualmente il malato di mente nella vita «normale» non lasciandolo solo nella società, con un brusco passaggio dal manicomio alla solitudine disperata di una città, come ha fatto la legge 180. Il progetto di don Uva patì il pregio della sua visionaria e prematura lungimiranza e non fu raccolto dal governo (era il 1953). Strutture analoghe sarebbero potute sorgere per il recupero dei tossicodipendenti in comunità terapeutiche.

La sua opera nata dalla volontà e dalla fede, fu un miracolo di caparbia fiducia in una superiore assistenza: dopo che si mosse, giunse un contributo inviatogli nel 1921 direttamente da Papa Benedetto XV, e successivamente ebbe l’appoggio dei fascisti negli anni trenta e poi dei democristiani nel dopoguerra. Poi venne l’onda dell’anti-psichiatria, i manicomi furono chiusi; ora, la Casa di don Uva è riconvertita in Universo Salute.

Don Uva mostrò che l’attaccamento alla propria terra (egli si definiva Massaro del Signore), l’appartenenza a un orizzonte agricolo-religioso, la stessa sua fede religiosa, se fattivamente intesi, possono essere non freni o ma formidabili propulsori di iniziative e di sviluppo. Quel Terrone benedetto da Dio ebbe un socio occulto e determinante, la Divina Provvidenza.

La Verità