(Massimo Fini – massimofini.it) – Gianni Riotta, neoeditorialista di Repubblica, intervistato a Sky Tg24 da Milo D’Agostino, ha affermato: “E’ noto che i Talebani sono una creatura del Pakistan”. E’ noto solo a lui. E’ già un falso, come ho cercato di dimostrare nei precedenti articoli, che i servizi segreti pachistani abbiano aiutato il movimento talebano, ma nessuno si era mai spinto a dire che questo movimento è stato creato dal Pakistan. Nel 2001 prima dell’attacco all’Afghanistan, il Pakistan, alleato degli Stati Uniti, aveva fornito agli americani le basi aeree perché i loro bombardieri potessero agire partendo più da vicino. E allora che senso ha creare un movimento per poi distruggerlo? Ce lo spieghi Gianni Riotta. Come ho già raccontato, ma con la disinformatia occidentale, così unilaterale e zeppa di menzogne da superare quella sovietica, è necessario ogni volta, poiché siam soli, ripetersi, il più devastante attacco al movimento talebano fu opera dell’esercito pachistano, quello della valle di Swat del maggio del 2009. Quell’attacco oltre a un numero imprecisato di morti provocò un milione di profughi (in realtà saranno due) Il Corriere della Sera titolerà: “Un milione in fuga dai Talebani”. Invece fuggivano dall’attacco dell’esercito pachistano teleguidato dal generale americano David Petreus. Commenterà lo stesso Petreus: “La sfida dei Talebani ha ‘galvanizzato’ l’esercito del Pakistan”. E allora come può essere, lo chiediamo a Riotta e a tutti i Riotta, che il Pakistan fosse un alleato dei talebani o addirittura li avesse creati? Il titolo del Corriere capovolgeva la realtà ed è esattamente questo tipo di disinformazione che oggi in Occidente, pretende di informarci. I Talebani, a differenza dei “signori della guerra”, armati dagli americani, non avevano nemmeno missili terra-aria Stinger e allora, lo chiediamo a Riotta e a tutti i Riotta, che aiuto mai è venuto loro dai servizi segreti pachistani? La verità è che quello talebano-afghano fu un movimento spontaneo che reagì agli abusi, ai soprusi, agli stupri, alle prepotenze, dei “signori della guerra” che si erano trasformati, loro stessi e i loro sottoposti, in bande mafiose che spadroneggiavano in Afghanistan come volevano. Dirà il giovane Omar: “Come potevamo restare fermi mentre si violentavano le ragazze e si faceva ogni sorta di violenza sulla povera gente”. Ai giovani talebani afghani si uniranno poi molti studenti delle madrasse pachistane, ma fu anche questo un movimento spontaneo, dal basso, che nulla aveva a che vedere col governo del Pakistan.
Si possono considerare i Talebani come si vuole, ma non si può arrivare al punto spregevole di volergli togliere anche la dignità di una guerra di indipendenza, vinta con armi di fortuna, contro alcuni dei più potenti eserciti del mondo, contro la disinformazione occidentale, contro l’opinione pubblica occidentale che non ha mai emesso un fiato per le centinaia di migliaia di vittime civili che abbiamo fatto in Afghanistan, con i nostri bombardieri più che con i nostri soldati.
I Riotta, e tutti i Riotta, prima di dire sciocchezze e alimentarsi delle proprie menzogne, dovrebbero almeno cercare di informarsi un poco. Leggersi per esempio due libri di Ahmed Rashid, lo scrittore e giornalista pachistano considerato il maggiore esperto dei problemi dell’Asia Centrale e in particolare dell’Afghanistan: Talebani del 2001 (edizioni Feltrinelli) e Caos Asia del 2008 (edizioni Mondadori). In Talebani Rashid racconta come gli uomini del Mullah Omar arrivarono al potere. In Caos Asia denuncia la corruzione endemica di tutti gli apparati dello Stato all’epoca del fantoccio Karzai (con Ashraf Ghani andrà anche peggio): governo, amministratori provinciali, polizia. Sulla strada del passo del Salang, fondamentale perché collega il nord dell’Afghanistan a Kabul, gli autotrasportatori dovevano pagare venti taglie alla polizia o a vari gruppi di tagliagole. Con Omar si pagava un solo pedaggio, com’è per le nostre autostrade. La magistratura era, ed è rimasta fino all’ultimo, così corrotta che da anni gli afghani preferivano affidarsi a quella talebana. Insomma per avere una sentenza favorevole bisognava pagarsela.
Infine. E’ la prima volta, credo, nella storia del mondo, che a voler dettare le condizioni non sono i vincitori ma i vinti. In Italia a fare la voce grossa contro la decisione di Joe Biden di ritirarsi dall’Afghanistan, come era stato pattuito con i Talebani nei colloqui di Doha, sono soprattutto Salvini e Berlusconi. A parte che ai Talebani di Salvini e Berlusconi non frega assolutamente nulla, per loro fortuna non sanno nemmeno chi sono, ci vadano i nerboruti leghisti e i forzuti berlusconiani, a cominciare da Giorgio Mulé, a combattere i Talebani. Per lo meno ce ne saremmo liberati per sempre.
Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2021
Per l’ultimo capoverso di questo articolo, in particolare per il riferimento a Giorgio Mulé, vengo attaccato da tutte le parti. Non ho intenzione di difendermi dicendo che era una battuta. Mulé non è un berlusconiano qualsiasi, è il sottosegretario alla Difesa, e quindi ha il dovere di soppesare attentamente ciò che dice. E cosa dice quando dice “Qualsiasi deadline è priva di senso”: che dobbiamo restare in Afghanistan anche quando gli americani se ne vanno? E’ lui che deve chiarire, non io.
m.f.
“E’ noto che i Talebani sono una creatura del Pakistan”
Solo a RIOTTA non è noto che questo talebano “creatura” del Pakistan era in prigione a Pakistan da 8 anni .
Poveraccio, dalla Stampa alla Repubblica la “disinformazia” non cambia.
“Afghanistan, chi è il nuovo leader Baradar: fondò i talebani, trattò con Trump e ora dovrà governare. Sperava di avere più tempo
Era il compagno di giochi del mullah Omar. L’ascesa, la prigione in Pakistan, i negoziati con gli Stati Uniti.”
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in Pakistan
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I talebani possono piacere o no (a Fini si, a me no) ma tra politici e certi giornalisti è una bella gara a chi si sputtana di più nel triste numero dei pagliacci del circo mediatico.
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WikiLeaks e i segreti della guerra in Afghanistan
Negli “Afghan War Logs” rivelati dall’organizzazione di Julian Assange uno squarcio di verità senza precedenti sul conflitto afgano. Un estratto dal libro “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks” di Stefania Maurizi, da oggi in libreria per Chiarelettere.
Stefania Maurizi 26 Agosto 2021
[…] Il 25 luglio 2010 WikiLeaks pubblicò gli «Afghan War Logs», che mandarono il Pentagono su tutte le furie. I file erano 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Aprivano uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. […]
Pochi mesi prima della pubblicazione di questi documenti, l’organizzazione di Julian Assange aveva pubblicato un memorandum riservato [1] della Cia, datato 11 marzo 2010. Non aveva fatto grande scalpore, eppure era importante perché spiegava le strategie da usare per scongiurare il rischio che l’opinione pubblica francese e tedesca si rivoltasse contro la guerra, chiedendo il ritiro dei loro militari. In quel periodo i due paesi europei avevano i contingenti più grandi in Afghanistan, dopo quelli di Stati Uniti e Inghilterra: un ritiro delle loro truppe sarebbe stato a dir poco problematico per il Pentagono. Uno dei fattori su cui la Cia faceva più affidamento era proprio l’indifferenza che questa guerra generava nella pubblica opinione occidentale: se ne parlava rarissimamente nei giornali e si vedeva ancora meno in televisione, quindi stragi e atrocità non generavano alcuna reazione nell’opinione pubblica occidentale. «Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan» scriveva infatti la Cia nel documento rivelato da WikiLeaks «ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf.»
Il file consigliava, comunque, di non sperare solo nell’apatia, ma di preparare possibili strategie di persuasione nel caso in cui l’umore dell’opinione pubblica fosse cambiato. Gli argomenti propagandistici da usare con i cittadini francesi erano il possibile ritorno dei talebani al potere e gli effetti che questo avrebbe avuto sulla vita delle donne afghane: «La prospettiva che i talebani riportino indietro [il paese], dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese».
Mentre la carta da giocare con i tedeschi era quella dei rifugiati: «Messaggi che illustrino come una sconfitta in Afghanistan possa aumentare il rischio che la Germania sia esposta al terrorismo, al traffico di droga e all’arrivo dei rifugiati potrebbero aiutare a rendere la guerra più importante per chi è scettico verso di essa».
Per quanto rilevante, questo documento non aveva avuto un grande impatto, quando però il 25 luglio 2010 WikiLeaks rivelò gli Afghan War Logs, i documenti furono rilanciati in tutto il mondo e la reazione del Pentagono fu durissima.
Una straordinaria finestra sul conflitto
I 76.910 documenti segreti descrivevano la guerra come mai prima era stato possibile. Si trattava di brevi relazioni compilate dai soldati statunitensi che combattevano sul campo. Contenevano informazioni fattuali, incluse latitudine e longitudine dei luoghi in cui erano avvenuti scontri, incidenti e stragi di civili, il tutto descritto con data e ora esatta e in un gergo militare stretto.
I file registravano in tempo reale gli eventi significativi (SigActs, significant activities) dal gennaio del 2004 al dicembre del 2009, ovvero negli anni che andavano dal secondo mandato presidenziale di George W. Bush fino al primo anno dell’amministrazione di Barack Obama. Ogni unità e avamposto presente sul teatro di guerra doveva relazionare in modo estremamente sintetico su: attacchi subiti, scontri, morti, feriti, rapiti, prigionieri, fuoco amico, messaggi di allerta e informazioni sugli Improvised explosive devices (Ied), gli ordigni improvvisati piazzati lungo le strade e azionati a distanza che facevano strage di civili e soldati.
Ognuno dei report era come un’istantanea che fissava in un preciso momento e in un determinato luogo geografico il conflitto in Afghanistan. Mettendo insieme tutte le istantanee, soldati e intelligence potevano avere una visione completa della guerra, così come si sviluppava sul campo azione dopo azione, in modo da poter fare piani operativi e analisi di intelligence.
I rapporti erano compilati dai soldati dell’esercito americano, lo Us Army, quindi erano il loro racconto del conflitto. Non contenevano informazioni di eventi top secret, perché si trattava di documenti classificati al livello secret.
I documenti lasciavano emergere per la prima volta centinaia di vittime civili mai computate: il quotidiano inglese «The Guardian» aveva contato almeno 195 morti e 174 feriti, ma aveva fatto notare che il dato era sicuramente sottostimato. I file aprivano anche uno squarcio sulla guerra segreta che si combatteva con unità speciali mai conosciute prima di allora, come la Task Force 373, e con i droni, gli aerei senza pilota che, comandati dai soldati americani che si trovavano in una base del Nevada, uccidevano in posti remoti come l’Afghanistan.
La Task Force 373 era un’unità d’élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono e aveva come missione quella di catturare o uccidere combattenti di alto livello di al Qaeda e dei talebani. La decisione di chi catturare e chi ammazzare in modo stragiudiziale, ovvero senza alcun processo giudiziario, appariva completamente affidata alla task force [2].
Il valore degli Afghan War Logs rivelati da WikiLeaks stava proprio nel far emergere i fatti che la macchina della propaganda del Pentagono nascondeva e le oscure operazioni della Task Force 373 erano uno degli esempi. La brutalità con cui queste forze speciali agivano nella notte aveva portato a sterminare forze afghane alleate, donne e bambini. Questo tipo di attacchi contribuivano a creare un forte risentimento nelle popolazioni locali contro le truppe americane e della coalizione.
Ma nelle dichiarazioni ufficiali dei militari il nome della Task Force 373 non compariva mai e, come il «Guardian» aveva ricostruito, (3) venivano nascoste informazioni per coprire errori e stragi di innocenti. Durante una delle loro operazioni, per esempio, i soldati della Task Force 373 avevano ucciso sette bambini. La notizia della loro morte era stata data in un comunicato stampa della coalizione, ma senza spiegare il contesto in cui era avvenuta. Nessuno aveva raccontato che quelle forze speciali, spesso, non avevano letteralmente idea di chi ammazzavano, come in questo caso: avevano sparato cinque missili contro una scuola religiosa, una madrasa, convinti di colpire un leader di al Qaeda, Abu Laith al-Libi. In un altro, invece, avevano sterminato sette poliziotti afghani e ne avevano feriti quattro, convinti di colpire gli uomini di un comandante talebano.
I file, però, non rivelavano solo i massacri commessi dalle truppe americane, ma anche dai talebani, in modo particolare quelli causati dai loro atroci attacchi con gli Ied. Secondo i dati riportati dal «Guardian», dal 2004 al 2009 il database degli Afghan War Logs permetteva di ricostruire come gli Ied avessero causato oltre duemila vittime civili e come il 2009 fosse stato un anno particolarmente terribile, con cento attacchi in appena tre giorni. [4] Il quotidiano londinese evidenziava come gli Ied fossero l’arma preferita dai talebani, quella con cui cercavano di contrastare la schiacciante superiorità tecnologica delle truppe occidentali.
L’intensificarsi degli attacchi contro truppe americane e della coalizione internazionale era registrato nei file a partire dalla fine del 2005. Scavando nella documentazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva ricostruito che questa escalation era anche dovuta al fatto che i talebani e i signori della guerra, come il famigerato Gulbuddin Hekmatyar, minacciavano o anche pagavano cifre importanti, che potevano arrivare a diecimila dollari, [5] affinché la guerriglia locale portasse avanti azioni contro i soldati.
I file rivelavano anche un’altra informazione mai emersa prima pubblicamente: dalle ricerche del «New York Times» nel database risultava che i talebani avevano ottenuto missili terraaria trasportabili e a ricerca di calore del tutto simili agli Stinger che, venticinque anni prima, la Cia aveva fornito ai mujaheddin.
Si trattava di un contrappasso: la stessa tipologia di armi con cui i guerriglieri afghani avevano inflitto perdite devastanti ai sovietici, costringendoli alla ritirata, era finita nelle mani dei nemici degli americani in Afghanistan. [6]
Quanto ai droni, presentati spesso come un’arma infallibile a rischio zero – visto che, come in un videogame, venivano pilotati da soldati che operavano in completa sicurezza da una base negli Stati Uniti –, non sempre erano così infallibili. I file, infatti, documentavano situazioni, ricostruite dal settimanale «Der Spiegel», in cui le truppe avevano dovuto fare rischiose operazioni di recupero, perché quei velivoli senza pilota si erano schiantati al suolo e le informazioni segrete contenute nei loro computer potevano finire in mano al nemico. Non sempre, infatti, era possibile cancellare da remoto i dati presenti nei sistemi informatici dei droni [7] e, quando l’operazione falliva, i soldati sul campo in Afghanistan dovevano imbarcarsi in pericolose missioni.
A oggi gli Afghan War Logs rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009, considerata la segretezza di queste operazioni militari. Sono anche una delle pochissime fonti che abbiamo a disposizione per cercare di ricostruire il numero di civili uccisi prima del 2007, di cui nessuno pare avere dati affidabili, neppure la missione delle Nazioni unite in Afghanistan, l’Unama, che compila queste statistiche. [8]
Mentre scrivo nessuno sa che tipo di futuro attende l’Afghanistan. In particolare per quanto riguarda le donne, nel caso in cui i talebani tornassero al potere, anche perché nel frattempo nel paese è arrivato anche l’Isis. L’unica certezza è che non esistono dati affidabili su quanti civili siano stati ammazzati dall’ottobre del 2001 al 2006, mentre si sa che solo nel periodo dal 2009 al 2019 sono stati uccisi almeno 35.518 civili e ne sono stati feriti 66.546. Questo significa oltre tremila morti innocenti all’anno: è come se dal gennaio del 2009 al dicembre del 2019 in Afghanistan ci fosse stato ogni anno un 11 settembre, [9] eppure questa guerra è sempre rimasta fuori dallo schermo radar dell’opinione pubblica occidentale. E senza il coraggio di Chelsea Manning e di WikiLeaks, il segreto di Stato e la macchina della propaganda bellica non ci avrebbero mai permesso di acquisire le informazioni fattuali che abbiamo scoperto grazie agli Afghan War Logs. L’allora direttore del «New York Times», Bill Keller, li aveva definiti [10] «una straordinaria finestra su quella guerra».
Subito dopo la loro pubblicazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva intervistato Julian Assange, [11] chiedendogli: «Lei avrebbe potuto creare un’azienda nella Silicon Valley e vivere a Palo Alto in una casa con piscina. Perché ha invece deciso di dedicarsi alla creazione di WikiLeaks?».
Assange aveva risposto: «Si vive solo una volta e quindi abbiamo il dovere di far un buon uso del tempo a disposizione e di impiegarlo per compiere qualcosa di significativo e soddisfacente. Questo è qualcosa che io considero significativo e soddisfacente. È la mia natura: mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili e mi piace fare a pezzi i bastardi. E quindi è un lavoro che mi fa sentire bene».
Ma il Pentagono non la vedeva allo stesso modo e reagì con furia alla rivelazione degli Afghan War Logs. L’allora segretario alla Difesa Robert Gates promise subito «un’inchiesta aggressiva», mentre l’ammiraglio Mike Mullen aveva subito dichiarato: «Assange può dire quello che vuole sul bene che lui e la sua fonte credono di fare, ma la verità è che potrebbero avere già le mani sporche del sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana».
Un’accusa questa che sarebbe stata ripetuta acriticamente dai media per oltre un decennio, danneggiando seriamente Wiki-Leaks. Ma era vera?
Le mani sporche di sangue
Il veleno che il Pentagono aveva iniettato nel dibattito pubblico su WikiLeaks non tardò a dare i suoi frutti. Pochi giorni dopo la pubblicazione dei documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, l’idea che Julian Assange e la sua organizzazione fossero dei pericolosi irresponsabili iniziò a circolare nell’opinione pubblica e nelle redazioni dei giornali. Le parole dell’ammiraglio Mike Mullen sulle «mani sporche di sangue» si riferivano al fatto che, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la diffusione dei 76.910 documenti segreti esponeva le truppe americane, quelle della coalizione internazionale e i collaboratori afghani – che fornivano loro informazioni e assistenza sul campo – al rischio di attentati da parte dei talebani, perché alcuni di quei file contenevano nomi o dettagli che permettevano di identificarli.
Era chiaro che il Pentagono avesse un grandissimo interesse nel delegittimare WikiLeaks a causa della pubblicazione di quei file e di altri precedenti, come il video Collateral Murder. Gli Afghan War Logs costituivano una vera e propria miniera di informazioni: la stampa e l’opinione pubblica mondiale potevano confrontare le dichiarazioni dei vari leader militari e governi, che avevano inviato truppe in Afghanistan, con i dati contenuti nei file e scoprire le menzogne ufficiali, le omissioni e le manipolazioni.
Quei documenti permettevano per la prima volta di diradare la nebbia della guerra, mentre il conflitto in Afghanistan era in corso e non venti o trent’anni dopo, quando ormai i fatti potevano interessare giusto agli storici di professione.
Era dal 1971, quando Daniel Ellsberg fece uscire i Pentagon Papers – settemila documenti top secret sul Vietnam –, che l’opinione pubblica non aveva più avuto l’opportunità di accedere a migliaia di informazioni riservate su una guerra mentre questa era in corso. Di fronte alla dichiarazione dell’ammiraglio Mike Mullen era d’obbligo una notevole dose di sano scetticismo, perché era ovvio che il Pentagono fosse furioso con Assange. Eppure quelle parole fecero subito breccia nell’opinione pubblica e nei media.
WikiLeaks non aveva pubblicato le rivelazioni sull’Afghanistan da sola, aveva stabilito una collaborazione con tre grandi giornali internazionali: il «New York Times», il quotidiano inglese «The Guardian» e il settimanale tedesco «Der Spiegel». Come già fatto con me nel caso del file audio sulla crisi dei rifiuti a Napoli, Assange e il suo staff avevano scelto di collaborare con i reporter di quelle tre grandi redazioni per diverse settimane, durante le quali i giornalisti avevano avuto accesso esclusivo ai documenti segreti in modo da poterne verificare l’autenticità e indagare sulle rivelazioni più importanti che ne emergevano.
Finito questo lavoro, il «New York Times», il «Guardian» e «Der Spiegel» avevano pubblicato le loro inchieste basate sugli Afghan War Logs e WikiLeaks aveva reso pubblici sul suo sito web i 76.910 file in modo che, dopo un periodo di accesso garantito solo a quei tre media, chiunque potesse leggerli.
Assange e il suo staff chiamavano questo tipo di collaborazione media partnership e la strategia aveva funzionato: tutto il mondo aveva seguito quelle rivelazioni, che avevano avuto un grande impatto internazionale ed erano state riprese da giornali, televisioni e media di ogni angolo del pianeta. Ormai WikiLeaks era un fenomeno globale.
Due cose mi colpivano, in particolare, di questa organizzazione: innanzitutto la sua scelta di democratizzare l’accesso alla conoscenza e alle informazioni, pubblicando i documenti per tutti, affinché qualunque cittadino, giornalista, studioso, politico o attivista del mondo potesse leggerli, fare ricerche mirate e indagare in modo del tutto indipendente sulla guerra in Afghanistan, senza doversi affidare esclusivamente a quello che i giornali avevano scritto.
Trovavo questa scelta rivoluzionaria, perché permetteva a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, cercare i fatti a cui era più interessato, utilizzare i documenti per chiedere giustizia in tribunale e anche verificare come i giornalisti li avevano riportati nei loro articoli: ne avevano scritto fedelmente oppure li avevano distorti, esagerati o censurati? Questo processo di democratizzazione dava potere ai lettori comuni: non erano solo recipienti passivi di quello che riportavano giornali, televisioni, radio, ma per la prima volta avevano accesso diretto alle fonti primarie e questo diminuiva l’asimmetria tra chi aveva questo privilegio, come i reporter, e chi no.
Oltre alla democratizzazione dell’informazione, mi colpiva ancora una volta il coraggio di Julian Assange e di tutti i giornalisti di WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, infatti, non si era limitato ad accusarli di avere «le mani sporche di sangue», ma aveva anche intimato loro di rimuovere completamente gli Afghan War Logs dal sito e di restituire 15.000 file sulla guerra in Afghanistan che non avevano ancora reso pubblici. «L’unica soluzione accettabile» aveva dichiarato pubblicamente il portavoce del Pentagono, Geoff Morrell, «è che WikiLeaks restituisca immediatamente tutte le versioni di quei documenti al governo degli Stati Uniti e che cancelli una volta per tutte i file dal proprio sito web e dai suoi computer». Poi aveva aggiunto: «Se fare la cosa giusta per loro di WikiLeaks non va bene, allora vedremo che alternative abbiamo di costringerli a fare la cosa giusta».
Era un’intimidazione da non sottovalutare: con la guerra al terrorismo, gli Stati Uniti avevano dimostrato che non si sarebbero fermati davanti a nulla e avrebbero usato ogni tipo di mezzo legale o illegale, dalla tortura agli assassini con i droni, contro chi percepivano come una minaccia alla loro sicurezza. Allo stesso tempo era da escludere che avrebbero usato mezzi così sfacciatamente brutali per neutralizzare Assange e WikiLeaks, che era un’organizzazione giornalistica del mondo occidentale e ormai molto visibile. Il documento del 2008 del controspionaggio americano, l’Army Counterintelligence Center (Acic) – che WikiLeaks stessa aveva rivelato –, aveva fatto emergere come le autorità americane puntassero a neutralizzarli colpendo le fonti che passavano loro documenti segreti, piuttosto che colpendoli direttamente.
In ogni caso quelle minacce andavano prese molto sul serio: suonavano grottesche a chiunque avesse un’idea della sproporzione tra la potenza e le risorse del Pentagono e quelle di una piccola organizzazione come WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti avrebbe potuto schiacciarla come un moscerino in qualunque momento. Ma Assange e il suo staff non si piegarono a quell’intimidazione. E per questo avrebbero pagato un prezzo molto alto.
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Ricotta non lo prendo neanche in considerazione, dovrebbero fare altrettanto gli Editori.
MULE’, vegeta nella costellazione dei “migliori” meshinetto, c’è a sua insaputa.
Massimo Fini sono diversi giorni che ci provi ma purtroppo è come pestare l’acqua nel mortaio.
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Nel governo dei peggiori c’è, giustamente, anche Mulè. Ma come mai non hanno dato un dicastero anche a Riotta ? Peggio di lui…Magari quello delle pari opportunità :in fondo i servi imbecilli hanno diritto ad avere un trattamento umano.
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