(Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Non mi piace vincere facile, quindi vi risparmio le battutacce sul fatto che la progressiva adesione dei sindacati all’ideologia padronale li abbia resi particolarmente sensibili alla greppia, alla mangiatoia in senso figurato e alla mensa, quella concreta, inaccessibile senza green pass.

Di mense ne ho frequentate tante, mi è anche accaduto di sedermi a quelle di manager e dirigenti, qualcuna affidata alle cure di chef televisivi, con impiattamenti e suppellettili regali. Ma, perlopiù, sono luoghi di ineguagliabile squallore a cominciare da quelle scolastiche, oggetto già in passato di discriminazioni vergognose e solite addestrare i bambini a sapori penitenziali, che scoraggiano gli avventori con odori sgradevoli o con una ancora più demoralizzante assenza di aromi e afrori associabili a sapori domestici riconducibili al perenne culto della cucina di nonna.

Malgrado siamo stati afflitti tutti dall’insalata di riso con sottaceti, dalle fettine panate e dai rigatoni conditi con pomito, l’accesso alla mensa è diventata la trincea della disobbedienza da quando Palazzo Chigi ha chiarito senza mezzi termini che anche per pranzare sul luogo di lavoro è necessario esibire il sedicente lasciapassare sanitario, dopo il rischio del primo sciopero no-greenpass in un’azienda nel Torinese.

Potente è stata la reazione dei sindacati: Fim Cisl Torino ammonisce: «Lavorare vicini per 8 ore e dividersi in mensa continua ad essere un principio paradossale. C’è il rischio di tensioni inutili, che vogliono evitare sia i lavoratori sia le aziende»; Fisascat Cisl Liguria e Filcams Cgil Genova ricordano che «la mensa aziendale è una conquista sindacale», e che «chi va a lavorare deve poter mangiare». E la Uilm di Trieste a proposito delle foto di rappresentanti delle forze dell’ordine che consumano il pasto sui marciapiedi, si indigna  per « scene che non vorremmo mai vedere».

E basta! con l’acrimonia nei confronti della triplice, basta con le accuse di subalternità e acquiescenza, vedete bene che quando sono in gioco i temi cruciali, quelli dei diritti, della dignità, del rispetto i rappresentanti dei bisogni degli sfruttati si mettono al loro fianco.

È che siamo talmente malridotti che tocca accontentarsi di questi occasionali risvegli dalla narcosi somministrata dal padronato e dai governi e parlamenti al suo solerte servizio. Quelli che hanno prodotto più di 50 leggi e leggine in vent’anni tutte mirate a promuovere precarietà e instabilità, quelli che hanno svenduto i gioielli di famiglia consegnando i dipendenti nelle mani di avidi bancarottieri, di inquinatori recidivi che li hanno costretti a scegliere tra salario e salute, quelli che poi sono pronti a ricomprare fallimenti e fiaschi caricando i passivi, costi e crimini sulle spalle dei cittadini, quelli che celebrano l’audacia dei delocalizzatori che fanno trovare la fabbrica vuota una mattina a operai licenziati con una mail.

Anche i sindacati, fino allo scandalo della discriminazione alimentare, hanno deplorato le piazze di questi mesi, a cominciare dalle prime, quelle dei dipendenti di aziende che a marzo del 2020 hanno manifestato pretendendo misure di sicurezza se era vero che stavano rischiano per il bene comune in qualità di essenziali, subito messe a tacere dai loro rappresentanti che hanno rivendicato come un successo il disonorevole protocollo unilaterale che liberava i datori di lavoro dalle responsabilità in caso di Covid contratto nel posto di lavoro, in modo che fosse chiaro che qualsiasi accordo non interveniva sul normale andamento che ha registrato in questi mesi tre morti bianche al giorno.

Non parliamo poi dello sprezzo schizzinoso riservato alle piazze maleducate delle vittime della gestione infame dell’emergenza “sanitaria”, macchiette di una commedia all’italiana indegne di solidarietà, col loro generale inaccettabile e gli attori senza scrittura, i ristoratori, gli artigiani, i baristi, i commercianti “evasori”, che non meritano il rispetto delle tute blu, quella da anni abbandonate nelle grinfie di sfruttatori a norma di legge e di Jobs Act, da riesumare il primo maggio come figuranti al fianco di qualche confindustriale in gita.

Peggio ancora è successo con quelle recenti, dichiaratamente antidemocratiche e irrispettose delle leggi anche quando hanno la forma dei provvedimenti d’urgenza in modo da scavalcare il parlamento, popolate di chi divide con novax e terrapiattisti il frustrato rancore per la scienza e il rifiuto conservatore per il progresso e da chi rinnega i doveri e le responsabilità dell’appartenenza al consorzio civile, certificate dal passaporto verde. Gente che non ha a cuore la salute dei propri simili, come vorrebbe la responsabilità sociale che costituisce un valore e un caposaldo irrinunciabile, invece, della cultura d’impresa a tutte le latitudini, a Taranto come a Casale Monferrato, e di quella di governo confermata dall’impegno profuso per rafforzare la sanità pubblica, l’assistenza, la tutela dei soggetti fragili e che è diventata un valore anche per i sindacati che hanno sostituito le arcaiche pratiche della rappresentanza di interessi con il welfare aziendale.

Si capisce dunque che la protesta vien meglio, è più autorevole, equa e solidale, se trasferita al tavolo delle trattative ai tavoloni con su il tovagliato di carta e ha come oggetto l’unico diritto acquisito che sta a cuore ai sindacati, dopo l’abiura dell’articolo 18, l’accettazione della legge Fornero, il si ai gioghi della riforma del Jobs Act, il disinteresse ostentato per le vertenze dei precari colpevoli di preferire la fidelizzazione ai sindacati di base, l’indifferenza davanti all’assassinio di un “collega”, travolto da un killer padronale, il silenzio in tema di sblocco dei licenziamenti “compensato” dalle promesse sua una profonda “revisione” del sistema di ammortizzatori sociali, dopo la cortina di fumo stesa sull’immondo capitolo delle semplificazioni e della liberalizzazione degli appalti in favore della corruzione e del malaffare a norma di legge.

Ed è più efficace quando la vertenza è apparentemente marginale e quindi presuppone che si possa arrivare a ragionevoli compromessi: infatti non è nemmeno sfiorata la natura del Green Pass, come strumento repressivo e di discriminazione che promette di essere trasferito dal contesto “sanitario” a tutti i settori della vita sociale e delle relazioni e che non ha solo l’intento dichiarato di spingere la massa renitente a vaccinarsi.

Non è un caso che la prudenza assuma la forma della critica a contraddizioni illogiche: perché una anziana beghina può recarsi in Chiesa, un venerabile malfattore in Senato, mentre un adolescente non può andare a concerto all’aperto o in un’area archeologica, o perché due operai a fianco davanti a una macchina poi non possono sedersi vicini davanti alla carbonara. Con il risultato che la contestazione dell’irrazionalità produca una sua estensione illimitata e una obbligatorietà totale e generalizzata, accettabile perché in sua assenza è decretata la morte sociale, civile e morale, è autorizzato il licenziamento, è legittimata la sospensione dell’istruzione.

Intanto i mesi trascorrono, tra meno di un mese dovranno ripartire i richiami dei primi vaccinati, è pronta la campagna per la terza dose mentre infuria la propaganda sulle varianti, in modo da sostituire le incertezze e i dubbi che cominciano a manifestarsi con una bella iniezione di terrore.