Il ritardo infrastrutturale del Mezzogiorno, con gli effetti di freno alla crescita economica e di desertificazione sociale che ne sono derivati, non è frutto del caso: è stato scientemente perseguito a livello politico e amministrativo attraverso una serie di decisioni, ma soprattutto di omissioni, che negli anni hanno impoverito il Sud e le Isole. Non […]

(pressreader.com) – di Nicola Borzi – Il Fatto Quotidiano – Il ritardo infrastrutturale del Mezzogiorno, con gli effetti di freno alla crescita economica e di desertificazione sociale che ne sono derivati, non è frutto del caso: è stato scientemente perseguito a livello politico e amministrativo attraverso una serie di decisioni, ma soprattutto di omissioni, che negli anni hanno impoverito il Sud e le Isole. Non a caso, nell’ultimo decennio la media pro-capite degli investimenti nelle infrastrutture per ogni abitante del Mezzogiorno è stata di circa 780 euro, il 17% in meno degli oltre 940 ricevuti invece dai residenti delle regioni centrosettentrionali. Per ridurre il divario, al Sud e alle Isole dovrebbe ora essere destinata una quota di spesa almeno pari al 45% del totale nazionale e “in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione residente”: invece, nell’ultimo decennio al Sud è andato appena il 30%, una fetta addirittura inferiore al 34,4% che avrebbe dovuto essere calcolato in base alla popolazione residente sul totale di quella nazionale.

A metterlo nero su bianco non è qualche nostalgico neoborbonico e nemmeno un consesso di statalisti fautori della rifondazione della Cassa per il Mezzogiorno, ma un gruppo di ricercatori della Banca d’Italia. I dati sono contenuti nello studio I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso, pubblicato a luglio dagli economisti Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller che lavorano per Palazzo Koch. Gli specialisti hanno misurato la dotazione delle infrastrutture nelle diverse regioni: dalle reti viarie e ferroviarie a quelle di telecomunicazione, dalla qualità dei servizi energetico e idrico alle caratteristiche di servizi pubblici essenziali come la sanità e la gestione dei rifiuti. Ne emerge una fotografia aggiornata che documenta gli enormi squilibri nella dotazione delle principali infrastrutture economiche e sociali tra le diverse aree del Paese.

Per i trasporti stradali e ferroviari, in termini di velocità e di accesso ai principali scali aeroportuali e portuali per il traffico merci le aree migliori sono Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Toscana. Sud e e Isole sono in svantaggio tranne che per i porti passeggeri della fascia tirrenica. Sul fronte delle tlc, la dicotomia Nord-Sud è meno marcata se si guarda alla disponibilità di rete mobile ad alta velocità, ma l’accesso effettivo riflette i divari economici e di cultura digitale delle famiglie.

Il gap infrastrutturale è invece molto profondo nella qualità della distribuzione di elettricità e acqua. Al Sud e nelle Isole la frequenza delle interruzioni senza preavviso del servizio elettrico è più che doppia rispetto al Centronord e oltre un terzo degli utenti riceve un servizio inferiore agli standard nazionali, mentre gli acquedotti disperdono acqua 1,4 volte in più rispetto al resto d’Italia. Sul fronte sanitario, chi vive in una regione meridionale o insulare ha il 40% di posti letto ospedalieri in meno rispetto alle regioni centrosettentrionali. La differenza si accentua se si guarda alle specializzazioni e alla qualità delle cure. Al Sud poi mancano impianti di trattamento dei rifiuti, il che aumenta i costi per l’utenza e ostacola l’adozione di tariffe puntuali che inducano le famiglie a privilegiare la raccolta differenziata.

La prima causa di questa situazione, secondo lo studio di Banca d’Italia, sta nei tagli alla spesa pubblica per gli investimenti, che fra il 2009 e il 2019 in Italia sono stati molto pesanti, con una riduzione di quasi un terzo, dal 4,6 al 2,9% del Pil. Si è così allargata non solo la forbice quali-quantitativa tra l’Italia e gli altri Stati europei, ma soprattutto tra le diverse macroregioni del Paese. Il divario tra Centronord e Mezzogiorno però è legato non solo alla diversa quota delle risorse distribuite sul territorio, ma anche alla differente capacità delle amministrazioni locali di selezionare i progetti e di concludere i lavori nei tempi previsti. Un fronte sul quale gli elettori del Sud e delle Isole non possono che recitare il mea culpa per aver continuato a eleggere dirigenti locali inefficienti. L’effetto finale di questi fenomeni è l’accentuazione dei divari, con un’Italia sempre più a due velocità non solo per quanto riguarda autostrade e ferrovie.

Se le infrastrutture sono collegate soprattutto alla finanza pubblica, che regola l’entità degli investimenti, non vanno dimenticate però le decisioni politiche che hanno disegnato la distribuzione territoriale della spesa pubblica. Mentre la componente ordinaria degli investimenti infrastrutturali da parte dello Stato è rappresentata da programmi ai quali, in base alla legge, accedono tutte le aree del Paese in proporzione alla popolazione residente, la componente aggiuntiva è invece costituita da programmi di spesa speciali volti a “promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale”, prevalentemente indirizzati alle regioni del Sud e alle Isole. Il tutto è frutto della legge delega sul federalismo fiscale numero 42 del 5 maggio 2009, proposta da Roberto Calderoli, senatore della Lega Nord e ministro per la Semplificazione normativa nel governo Berlusconi IV. La legge prevedeva interventi di riequilibrio della dotazione infrastrutturale dei territori e forniva un elenco delle reti da misurare (stradali, autostradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali, sanitarie, assistenziali, scolastiche, fognarie, idriche, elettriche, del gas), oltre ai criteri locali. Anche il decreto del 26 novembre 2010 ha stabilito che per valutare l’effettivo fabbisogno si confrontassero i livelli di servizio delle singole infrastrutture in base a standard nazionali e comunitari. Come ricorda Banca d’Italia, però, la “perequazione infrastrutturale” non è mai stata realizzata.

Intanto venerdì 13 agosto all’Italia è arrivata la prima tranche del Recovery Fund: 24,9 miliardi, il 13% del totale, che prefigurano una nuova stagione di investimenti infrastrutturali e dovranno essere spesi in base al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Per poterli mettere a frutto, ammonisce lo studio di Bankitalia, prima di distribuirli andrebbero mappate le infrastrutture presenti area per area, in modo da indirizzare le risorse dove davvero servono. Lo prevedeva la riforma Calderoli del 2009, lo ha ribadito la legge di bilancio 2021 varata dal governo Conte. Ma Draghi ha rinviato i termini. Mentre l’analisi ancora manca, gli appetiti delle lobbies e della criminalità organizzata sono invece già al lavoro e puntano sul ponte sullo Stretto e sull’alta velocità ferroviaria Salerno – Reggio Calabria. Non ciò che davvero servirebbe ai cittadini del Mezzogiorno, ma maxi-opere da esibire come bandiere e dalle quali lucrare mega-appalti.