(Giuseppe Di Maio) – Non ci dobbiamo raccontare frottole: l’unità della penisola è stata il risultato di un’aggressione, di una menzogna italiana e internazionale, di un’imboscata ai danni di un regno con i conti prosperi da parte del capitale privato. Fu rapinato l’erario di Stato, assorbita e cancellata la banca nazionale, trasferita l’industria strategica, saccheggiata la popolazione. Fu passata per le armi una moltitudine di oppositori. Alle popolazioni vessate si sottrasse e, capillarmente smantellato, lo Stato, né mai più fu sostituito. Così, alle soglie della contemporaneità, il Sud imboccò irrimediabilmente la strada del sottosviluppo.

Quando l’esercito piemontese ritirò la sua armata, erano passati ormai più di dieci anni di occupazione. Il Nord egemone si pose allora il problema di non far mai più rialzare il capo all’economia delle terre conquistate. “I meridionali non dovranno più essere in grado di intraprendere” diceva Carlo Brombini, governatore della neonata banca d’Italia. E i vincitori capirono che ci voleva un carceriere delle qualità e delle risorse del Sud, un costante alleato dell’ex regno di Sardegna e dell’intero Nord-Italia.

Durante la conquista era stata molto attiva, diciamo pure determinante, la criminalità organizzata. Se si legge qualche testo di storia mafiosa, si nota che da allora essa entrò a piè pari nei destini d’Italia marcandone tutte le più importanti svolte civili e politiche. Il carceriere doveva assicurare al padrone la minorità di una popolazione che potesse servire solo per il prelievo fiscale, per il consenso politico, per manodopera a buon mercato, come consumatore manovrabile e silenzioso. E il carceriere non fu solo la mafia, che impedì con la forza la rinascita di una libera economia. Fu soprattutto l’ignoranza. Fu la mistificazione continua della storia meridionale a creare un cittadino dimezzato, con il senso costante d’inferiorità, e che per affermare le proprie qualità dovette emigrare.

L’ignoranza, e poi la libertà di opinione, furono i carcerieri dell’Italia post-bellica. Ognuno poté partecipare alla democrazia, ma senza capire un tubo della struttura sociale. Ognuno con la libertà d’espressione ebbe un convincimento che annullava quello dell’altro, senza mai produrre una volontà politica prevalente. Sopra a tutti, il Capitale privato, proprietario dei mezzi d’informazione, che spandeva il verbo del padrone e dominava la scena politica. E’ da allora che l’Italia è diventata una prigione, è da allora che non genera più progresso sociale ma solo tecnologico. E’ da allora che si scambia per politica una misura di ordine sanitario, o una di solo valore sportivo.

E’ da allora che si emigrò, lasciando il posto più bello del mondo alla sua marmaglia. Come ancora adesso succede; quando qualcuno ha un cervello appena valido e libero, fugge da questo bel paese che, per non mettere dentro i propri ladri, ha fatto del suo territorio una galera.