(Dario Ronzoni – linkiesta.it) – Secondo quanto emerso nelle ricerche pubblicate a metà giugno, il vaccino dell’americana Novavax sarebbe efficace al 90,4%. Una cifra altissima, che arriva al 100% per le forme moderate e gravi della malattia. Si comporta molto bene anche di fronte a un mix di varianti, mentre gli effetti indesiderati sarebbero minori (solo il 40% dei partecipanti della Fase 3 ha dichiarato di averne avuti) e anche più lievi rispetto ai vaccini a base mRna, cioè Pfizer e Moderna. La sua stessa tecnologia, di tipo tradizionale – con particelle ottenute da una versione della proteina Spike ottenuta in laboratorio – lo renderebbe anche adatto per i più diffidenti, favorendo la sua diffusione e il suo successo.

Nonostante tutto questo, il vaccino ha ricevuto una copertura mediatica molto bassa. Niente di paragonabile rispetto all’entusiasmo che ha accompagnato primi (e questo è comprensibile) ma nemmeno rispetto al clamore riservato a Johnson&Johnson, i cui risultati sono usciti a gennaio.

La spiegazione di questa asimmetria, secondo questo articolo dell’Atlantic, va ricercata in un mix di tempismo e di strategia aziendale, che nella corsa al vaccino sono risultati decisivi. Ma anche al trionfalismo che ha accompagnato i ritrovati a base mRna.

Il timing, in particolare, è fondamentale. Nel momento in cui è uscito l’annuncio delle buone (anzi: ottime) prestazioni di Novavax, gli Stati Uniti avevano già tre vaccini a disposizioni, molti dei quali destinati all’esportazione. L’arrivo, sotto questo aspetto tardivo, dell’ultimo vaccino non scalda più di tanto. Il punto però è che la tempistica è stata il risultato di una coincidenza sfortunata: per ampliare la base dei trial – e ottenere in poco risultati affidabili a livello di massa – Pfizer e Moderna avevano cominciato verso la fine dell’estate del 2020, insieme all’ondata autunnale che ha colpito il Paese. Novavax ha finito le operazioni di reclutamento solo a febbraio, quando i casi erano già in calo.

Ma non è solo questo. Il primo studio sugli effetti del vaccino sulle persone di BioNTech-Pfizer è apparso sul registro dei trial clinici del governo americano il 30 aprile 2020. E lo stesso giorno è apparso lo studio sugli effetti di Novavax. Ma è qui che le strade si sono divise: per fronteggiare il Covid-19 serve un rimedio veloce, efficace e soprattutto da produrre in quantità enormi. È per questo che la tedesca BioNTech si è rivolta a Pfizer, gigante del settore, per la produzione e la distribuzione. Moderna poteva contare sul National Institute of Healh. Novavax ha fatto da solo, arrivando più tardi a ottenere i risultati necessari. Come conclude l’Atlantic, se in una dimensione parallela Novavax si fosse appoggiato, per esempio, a Merck, le cose sarebbero andate in modo molto diverso.

Per esempio, non ci sarebbe stata – con ogni probabilità – la celebrazione del cosiddetto «trionfo del mRna», la nuova tecnologia alla base di Pfizer e Moderna. Anche perché, a parte questi, dei nove vaccini mRna al nastro di partenza, solo tre sono arrivati alla fase conclusiva, e il tedesco Curevac – quello che Trump lusingava perché venisse in America – ha dato risultati deludenti sul piano della protezione, arrivando sotto il 50%. A dimostrazione che non è la tecnologia in sé a essere valida. Conta come viene impiegata e come viene costruito il prodotto finale.

Novavax avrebbe avuto dalla sua, oltre all’efficacia, anche i pochi effetti indesiderati (uno degli ostacoli al vaccino per chi teme di perdere, a causa di febbre e stanchezza, giornate di lavoro preziose) e la sicurezza di una tecnologia tradizionale, allontanando il rischio fake news che accompagna, al momento, i vaccini a base mRna (una di queste, molto diffusa, sostiene che possano modificare il dna).

È andata altrimenti, e non è un problema. Un vaccino in più, dai costi contenuti e dall’efficacia elevata, è solo una buona notizia.