(Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Ogni volta che cerco di insidiare la potenza egemonica della spirale del silenzio che assimila e tacita i colpevoli di un’opinione difforme da quella della maggioranza, mi accorgo che l’unico reato contro il quale si insorge con più veemenza è quello di lesa maestà.

Peccato che a denunciarlo e a volerlo contrastare oltre ai “monarchi” della nostra contemporaneità, rapper in nota spesa delle piattaforme, imprenditori di se stessi che si vendono anche la risonanza magnetica e l’ecografia della dolce attesa, ricconi pietosi che fanno beneficenza scaricabile dalle tasse, scendano in piazza, di solito virtuale, anche le vittime della loro aberrante pervasività virtuale, televisiva e morale, incantate dai loro stili di vita e che visto che c’è, farebbe meglio a non cercare di imitarli in vista di budget limitati, ma a toglier loro i panni firmati lasciandoli nudi ed esposti alla meritata derisione.

Il fatto è che a forza di ammaestrarci che siamo noi gli artefici del nostro destino, che se restiamo dei Travet oggi consegnati al lavoro agile e dunque soggetti a nuovi ricatti anche digitali, che se dopo un master alla Luiss che ha costretto i genitori a subire  le intimidazioni di cravattari creditizi facciamo i pizzaioli a Birmingham, che se invece di accedere ai fasti dello star system siamo finiti davanti a un telaio o alla cassa di un supermercato, beh,  è solo per colpa nostra.

Colpa nostra che non ci siamo attrezzati con il necessario bagaglio di qualità:  ambizione o cinismo, spregiudicatezza o manica larga, pelo sullo stomaco o assertività, indispensabili a realizzare i propri talenti e le proprie legittime e illegittime aspirazioni. Quindi chi arriva in alto va aiutato con il consenso a starci indefinitamente, perché se lo merita e va ammirato, vezzeggiato,  ne vanno seguite fiduciosamente le indicazioni vita e le prescrizioni morali.

E  guai  se si osa dubitare delle virtù apostoliche del supetatuato, se si accusa di “paraculaggine”, come ha fatto un’amica peraltro bella e appagata, la sacerdotessa dei diritti che ne instaura una gerarchia indiscutibile applicabile a intermittenza, se si contestano le arbitrarie graduatorie che sanciscono  le priorità dell’influencer investito del ruolo di testimonial del vaccino: se vi arrischiate non potete che essere dei nevrotici frustrati, dei biliosi invidiosi che vomitano la loro bile contro chi eccelle, come Moretti con la Wertmuller o Virginia Woolf che si libera della sua virtuosa compostezza britannica per descrivere a Lytton i supplizi umilianti cui sottoporrebbe quelle/i che vendono più libri di lei.

A ben vedere la cultura del piagnisteo è stata così fruttuosa che non ci si fa nemmeno carico dell’onere di essere vittime di discriminazione per agire conseguentemente e direttamente, si sceglie invece un testimonial, uno sponsor e non ha importanza che possieda legittimità e autorevolezza, perché basta l’elenco delle comparsate in tv, il numero di copie vendute dell’instant book  scodellato da esibire in trasmissione, i like dei follower, come unico e indiscutibile attestato del prestigio e dell’affidabilità dei messaggi.

E così è finita l’epoca, che oggi pare costruttiva e fertile, nella quale si diffidava dei progressisti in limousine, dei militanti con la pashmina: se hanno potuto comprarseli, se qualcuno ha accumulato abbastanza da trasmetterli per via dinastica, se sono stati così efficienti e dinamici da imbrogliare e rubare per approvvigionarsene, allora meritano oltre alla limousine e alla pashmina tessuta da piccole e agili mani di bambini e donne sfruttati, anche la fiducia a la delega a parlare in nome dei derelitti e a rappresentare il loro sentire, secondo i canoni e i paradigmi imposti dal pensiero unico.

Anche questo fa parte di quella nuova tolleranza che dovrebbe integrare, includere e omologare grazie a equilibrismi e contorsioni che investono tutta la società e il linguaggio in modo che anche quello resti in regime di monopolio nelle mani di un ceto che rivendica superiorità culturale, sociale e dunque morale, indicando alla massa zitta e buona cosa è giusto, lodevole e perfino sopportabile, in modo che un nano cresca di statura se viene chiamato diversamente alto, l’omosessuale si sente accettato se lo chiamano gay, l’invalido si alzerò dalla sedia a rotelle se viene apostrofato da paraplegico o da diversamente abile.

Ci hanno provato ultimamente anche definendo gli schiavi di Amazon, le cassiere del supermercato, gli operai alla catena “essenziali”, i neolaureati “prodotti finiti” delle attività di produzione culturale e la massa di sfruttati proletarizzati “capitale umano”, in modo da  galvanizzarli per contribuire allo sviluppo e al benessere della società infiltrata dal politicamente corretto.

E l’atono silenzio che accoglie ogni tentativo di   imbrigliare la libertà di critica e di espressione eretica convertendola in irresponsabile sovversione, dimostra che l’ offensiva emancipazionista  dietro alla quale si nascondono espliciti interessi di classe  e intenti autoritari ha vinto grazie alla nostra acquiescenza che ha permesso quella che è intellettualmente doveroso chiamare una mutazione antropologica, con la consegna nelle mani dell’oligarchia neoliberale di defraudare chi sta sotto delle sue bandiere, canzoni,  parole d’ordine per rovesciare la lotta di classe, trasformandole nelle armi per il controllo e il dominio incontrastato.