(Pietro Salvatori – huffpost) – È la mattina del 2 febbraio 2018, il clima è insolitamente mite a Roma. Luigi Di Maio, cravatta granata e completo blu notte, varca le porte di un antico palazzo nella periferia ovest di Roma, fino al 1655 residenza estiva dei papi, oggi sede della Link campus University. È il giorno in cui un anonimo ateneo privato di Roma inizia a farsi strada nelle cronache politiche come la casa dei cervelli a 5 stelle (una sua professoressa, Elisabetta Trenta, di lì a poco diventerà ministra della Difesa), ma è soprattutto il giorno nel quale l’allora capo politico 5 stelle prese l’agenda-meetup della politica estera, la appallottolò come un vecchio foglio di giornale, e la buttò nel cestino.

In un mondo che consuma voracemente trasformazioni e svolte e in un paese generalmente con la memoria corta oggi sembra tutto normale. Eppure all’epoca fece sobbalzare sulle sedie il mondo visto dal giovane vicepresidente della Camera. Niente più referendum sull’euro, niente più scelte in mano ai cittadini: “L’Ue non è un tema di politica estera, ma la casa naturale del nostro paese. E anche del Movimento 5 stelle”, con tanto di Nato e collocazione atlantica come bussole nella visione del mondo grillina.

E scusate se è poco, con Beppe Grillo fino a cinque minuti prima a fare campagna elettorale soffiando sull’euroscetticismo, con Manlio Di Stefano a chiedere che “la partecipazione italiana nell’Alleanza atlantica” fosse “ridiscussa nei termini e sottoposta al giudizio degli italiani”, con un gruppetto di venezuelani anti Chavez che solo un mese prima avevano contestato vivacemente la scuola di formazione politica M5s andata in scena a Pescara. Un percorso che a tre anni di distanza ha portato Di Maio a tentare di costruirsi un’immagine diversa soprattutto utilizzando il suo ruolo di ministro degli Esteri, benvoluto da una struttura che inizialmente lo aveva respinto, a studiare dossier dopo anni passati a combattere nella sanguinolenta arena della dichiarazione quotidiana, ritenuto “affidabile” dalle feluche e dagli interlocutori internazionali, perfino dal Quirinale, che nel suggerire a Mario Draghi continuità nei dicasteri fondamentali (Interno, Difesa e, appunto, Esteri) ha automaticamente investito l’ex capo politico 5 stelle di un giudizio benevolo impensabile un anno prima, quando gli echi della richiesta di impeachment che precedette l’accordo di governo con la Lega rimbombavano ancora nelle stanze del governo.

“Quando è arrivato, Di Maio era circondato da un certo scetticismo”, spiega chi ha una consolidata consuetudine con i corridoi di marmo della Farnesina, chi è abituato al rimbombo delle voci che rimbalzano sugli altissimi soffitti. È passato un anno e mezzo da quel giorno alla Link campus quando il ragazzo di Pomigliano entra per la prima volta nel cubo di marmo sorto sull’area appartenuta a Papa Paolo III Farnese (i papi, un’altra volta) e progettata per essere la casa del Partito nazionale fascista.

La Farnesina è un ministero particolare, vi si accede con un concorso complicatissimo, la carriera interna ha passaggi obbligati, il personale è qualificatissimo, la gerarchia severa, l’impostazione è quella di un gruppo di civil servant che si muovono assai meno dei loro colleghi a seconda di come tira il vento della politica. Lo scetticismo con il quale venne accolto Di Maio c’entrava sì con un background digiuno di esteri, con un’impreparazione generale del capo di quelli che venivano considerati parvenu di Palazzo, ma era figlio anche di scelte considerate superficiali o sgangherate dei mesi prima. “Una mossa di propaganda e poco più”, dice oggi una feluca dell’accordo chiuso con Pechino sulla Nuova Via della Seta, che fu duramente contestato dalle opposizioni, guardato con sospetto dall’Europa e con preoccupazione dagli Stati Uniti. Ancor peggio fu l’intemerata francese con i gilet gialli, immaginati in un attimo di poco lucida follia come interlocutori se non alleati delle elezioni europee.

Iniziative condotte con il piglio del leader politico che insegue il consenso, che molto relativamente avevano a che fare con i ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico guidati fino allora da Di Maio. Come il giovane leader è diventato allora un ministro rispettato da una macchina esigente e poco incline a farsi condizionare dalla politica sui dossier?

Il primo, fondamentale, mattone viene posto esercitando proprio quel peso da capo politico che era stato il movente delle intemerate con i gialloverdi. Di Maio riporta da subito il portafoglio del Commercio internazionale alla Farnesina, sanando una ferita profonda che aveva aperto Silvio Berlusconi trasferendolo nel 2008 proprio al Mise, una battaglia che il ministero conduceva infruttuosamente da anni.

Il neo ministro mette subito le cose in chiaro: “Al ministero degli Esteri sarà mia premura puntare all’internazionalizzazione del nostro sistema economico e della nostra industria e ricerca, incrementando i canali di cooperazione in ambito multilaterale”. “L’intuizione – spiega una feluca di rango – è quella di fare degli Esteri anche un volano del Made in Italy, riportando a casa un portafoglio importante di spesa, di cui la Farnesina era sprovvista: sono soldi, bilancio, know-how”. Proprio su questo si mette da subito al lavoro con il Direttore generale della promozione del sistema paese, Enzo Angeloni, ex ambasciatore in india, che pian piano diventerà una delle figure importanti nella gestione dimaiana del ministero.

Alla Farnesina Di Maio ritrova poi Elisabetta Belloni, segretaria generale con la quale coltivava da tempo rapporti, in prima fila quella mattina di tre anni fa alla Link campus, che sarà uno dei rapporti chiave con i quali si inserisce nella struttura. 

Fondamentale la scelta del capo di gabinetto. Di Maio chiama con sé Ettore Sequi, ambasciatore in Cina con il quale il rapporto si è cementato e stratificato nei mesi delle trattative per la nuova via della seta, già al fianco dei predecessori Federica Mogherini e Paolo Gentiloni. “Questa sarà una scelta chiave – spiega la feluca – perché Sequi è stimato e considerato uno di gran peso da quelle parti”. Durante la pandemia, inoltre, il ministro ha costruito un altro fondamentale rapporto, quello con Stefano Verrecchia, direttore di quell’Unità di crisi che non solo si occupa incessantemente di crisi derivanti da rapimenti o prese in ostaggio, ma che ha avuto e continua ad avere anche un ruolo fondamentale nel rientro a casa degli italiani all’estero ai tempi del Covid.

Nel giro di poche settimane “ci siamo accorti che leggeva i dossier, li studiava, metteva sul tavolo di Palazzo Chigi le pratiche che gli istruivamo”. È l’abc, ma il contraccolpo è decisivo per attirare su Di Maio la benevolenza del corpo diplomatico. I mesi di Enzo Moavero vengono ancora ricordati con risentimento: “Montagne di carte che semplicemente non firmava, rapporto quasi nullo con chi lavorava al ministero”, vuoi per carattere, vuoi per la congiuntura che lo vedeva tecnico nella morsa di uno strano governo politico (quello tra Lega e 5 stelle). Fatto sta che “le carte che non venivano lette, adesso lo sono”.

Di Maio rassicura anche sulla linea politica: coltiva un buon rapporto con gli omologhi europei, francesi e tedeschi su tutti, rassicura sulla collocazione atlantica del paese, abbandona le vesti di capo politico e insieme a quelle gli ammiccamenti alla Cina e alla Russia, che rientrano nei ranghi di importanti partner commerciali e poco più, stringe un rapporto con Mike Pompeo senza scottarsi troppo le mani con Trump, nonostante qualche timidezza retaggio del passato. Oggi i suoi collaboratori sottolineano il bilaterale di un’ora con il successore di Pompeo alla Segreteria di stato statunitense, il democratico Tony Blinken, che ha raddoppiato i tempi inizialmente previsti dal cerimoniale, come a spazzare via il campo da qualsiasi nostalgia trumpiana. Un rapporto “decisivo” per la liberazione di Chico Forti, spiega la macchina della comunicazione del ministro, rivendicando il successo del ritorno a casa del produttore televisivo e velista italiano dopo una detenzione di vent’anni negli States per un omicidio del quale si è sempre professato innocente.

Lo storico scontro su chi debba dare le carte sulla politica estera tra la Farnesina e Palazzo Chigi è superato anche in forza della sua intesa con Conte. Il premier centrale sullo scacchiere europeo, diventato ancora più centrale in tempo di pandemia, il ministro al lavoro sui dossier specifici. Dalla Libia – di cui è fresco di visita insieme ai colleghi di Francia e Germania al governo di unità nazionale, capofila dell’iniziativa europea sulla sponda sud del Mediterraneo – ai Balcani, dove si recherà nel prossimo viaggio ufficiale, fino all’attività per incentivare l’export e il made in Italy nel mondo. Uno schema destinato a rafforzarsi sotto la presidenza di Mario Draghi, che di certo a Bruxelles e dintorni non ha bisogno di presentazioni. “Di Maio è un ministro che viaggia – spiega chi lavora alla Farnesina – e per il nostro ministero è fondamentale, uno dei problemi di Moavero è che stava troppo a Roma”.

Negli ultimi mesi anche il suo staff ha ricalibrato la comunicazione. Si sono enormemente diradate le uscite che mirano a inseguire o indirizzare l’agenda politica, si sono moltiplicate quelle che riguardano l’attività del ministro. “Pazienza se si fanno meno like sui social, non è quello che conta oggi”, spiega un suo collaboratore. La convinzione è che il Di Maio politico sia già stato ampiamente recepito dall’opinione pubblica, e che ora si debba lavorare sui contenuti. Un parlamentare amico spiega che “Luigi sta provando a ritagliarsi nel Movimento un ruolo alla Franceschini, quello di chi da le carte senza dover necessariamente essere tutti i giorni in prima pagina, ma forte di un suo speso specifico”. Un lavoro che parte dalle scottature della prima esperienza di governo, da una tardiva presa di conoscenza di quanto siano fondamentali le sfumature diplomatiche nel rapporto con Bruxelles e con le cancellerie in generale, un’inversione a U dopo essere andato a omaggiare in faccia a Emmanuel Macron i rivoltosi che mettevano a soqquadro le città della Francia.

Non tutte le perplessità sono superate. “Quanto è profondo il riallineamento dopo le sciocchezze degli anni passati?”, si chiede una feluca. “Noi siamo stati abituati a vedere anche cambiamenti radicali dei leader politici, è la storia italiana, ma a seguito di processi politici, elaborazioni, profondi dibattiti. Qui c’è poco di tutto questo, ma mi auguro che duri”. Un suo collega sottolinea quella che definisce una “debolezza strutturale nell’idea diplomatica complessiva”. Va bene il lavoro sui dossier, va bene uno staff molto capace nel capire quando parlare e quando tacere, il senso del ragionamento, ma “la politica estera non scienza esatta, bisogna portare a casa dei risultati. Di Maio vuole fare della Libia il primo obiettivo della sua politica estera, perché significa stabilità e accesso risorse. Ma per essere giudicato bene ci vorrebbe anche un po’ di sostanza. Deve intestarsi qualcosa, un risultato concreto per cui essere riconoscibile”. L’esempio che porta è quello di Emma Bonino, della sua intuizione di ricorrere a un arbitrato internazionale per risolvere la crisi dei marò: “Perché la struttura inoltra dossier, suggerisce ipotesi, ma poi la decisione politica la deve prendere il ministro”. C’è poi un dato di contesto a penalizzare il giovane ministro, quello dell’assenza di una famiglia politica europea alla quale riferirsi. “Così – ragiona l’ex ambasciatore – tutti i rapporti sono basati sulla cortesia e sull’empatia personale, è difficile trovare sponde frutto di un’appartenenza comune”. E forse anche per questo che nelle ultime settimane sono partite le grandi manovre per un approdo della pattuglia degli europarlamentari al gruppo dei Socialisti e democratici al Parlamento europeo, che c’entra molto con i tentativi di M5s e Pd di strutturarsi in un’alleanza duratura ma che avrebbe ricadute importanti nelle attività ministeriali.

“Il Movimento è moderato e liberale”, ha detto di recente intervistato da Repubblica, forse una fuga in avanti un po’ precipitosa, un uso improprio di categorie politiche consolidate con le quali i 5 stelle ancora oggi poco c’entrano, ma che restituisce l’idea della direzione in cui si è incamminato Di Maio. “Si sta cimentando nello stesso percorso di Franco Frattini e Gianfranco Fini, indipendentemente dal colore politico e da come quelle storie siano andate a finire”, spiega un ambasciatore di rango, “vale a dire l’idea di una costruzione di rapporti più duraturi che prescindano da esperienza italiana e che possano essere messi a frutto nel futuro”.

Già, il futuro. C’è un’ala critica nel Movimento che vede questo tentativo di accumulare capitale politico come la possibilità di tenersi al caldo un’exit strategy, la possibilità di costruire una sua rete di rapporti che prescinda dai 5 stelle, qualcuno a soffiare sull’idea a un certo punto di issare le vele e costruire un suo partito. Voci e veleni che girano fra i pentastellati, complice anche un vuoto di potere e una balcanizzazione del partito che alimenta paure e sospetti. Un esponente di governo è di tutt’altra idea: “Noi siamo visti come il brutto anatroccolo in Europa e nel mondo, ci guardano con sospetto, sono diffidenti. Il lavoro di Luigi serve a questo, a accreditarci anche fuori dall’Italia come forza responsabile di governo”. 

Alla Farnesina sperano che il riallineamento sia “profondo e duraturo”, ancora preoccupano le cicatrici di un recente passato che nelle frange più radicali del Movimento qua e là ancora riaffiora nelle iniziative politiche e nei dibattiti parlamentari. Di certo c’è che il Di Maio entrato con una certa fama non è il Di Maio che hanno conosciuto in questi mesi, e che “come ministro lavora meglio di quanto ci aspettassimo”. Che sia per sé o che sia per il Movimento alla Farnesina poco importa. Sempre che tra l’una e l’altra cosa ci sia poi qualche differenza.