(Roberto Bertoni – tpi.it) – D’accordo, ha commesso anche degli errori, ha avuto delle sviste, forse in qualche caso ha persino peccato di superficialità o, travolto dalle pressioni e dalla stanchezza, è rimasto vittima di un’esperienza politica non a prova di bomba e della mancanza di quei ferri del mestiere che si affinano solo col passare degli anni. Ciò premesso, e checché ne dicano analisti, commentatori e cantori confindustriali e larghintesisti di varia natura, se c’è una personalità che esce in maniera gigantesca da questa tragedia è Giuseppe Conte.

Non sappiamo ancora come andrà a finire questa storia, ma una cosa è certa: un onesto avvocato, chiamato a fare da garante a un’alleanza innaturale fra 5 Stelle e Lega, dovuta più che altro ai dinieghi di un personaggio su cui è opportuno non spendere altre parole, si è trasformato, nel corso della successiva esperienza giallorossa in un punto di riferimento per il campo progressista, federando soggetti che, fino a qualche anno fa, si detestavano e reggendo bene a una prova devastante come la gestione della pandemia, una battaglia che ha messo a nudo i limiti di presidenti del Consiglio ben più rodati e sconvolto il panorama politico globale.

Con l’ultima mossa, per cui pare si siano attivati in diversi, su tutti Dario Franceschini, Conte ha, infine, compiuto un piccolo capolavoro, restituendo al mittente le accuse di essere uno sfascista, pronto a far saltare tutto per chissà quale ambizione personale.

Appoggiando sostanzialmente il tentativo di Draghi e ponendo al centro l’unica richiesta saggia da compiere, ossia che si tratti di un esecutivo politico, senza lasciar spazio alla tecnocrazia arrembante dei soliti noti, molto avvezzi a frequentare salotti e vernissage ma per nulla in sintonia con il comune sentire di un Paese allo sbando, Conte ha, infatti, mostrato di avere una caratura che io stesso, all’inizio, non gli riconoscevo e che mai avrei creduto possedesse.

Ed è riuscito inoltre nell’impresa di porsi come federatore dell’esperienza giallorossa, trasformando così una coalizione litigiosa fra ex nemici in un probabile progetto politico di centrosinistra, unico argine possibile al dilagare di una destra che qualche preoccupazione per le sorti della collettività la desta sul serio.

Si è comportato, in poche parole, da politico e da statista. Ha subìto di tutto, comprese le accuse di chi lo definiva un incapace e un parvenu, il costante dileggio di una parte della stampa, il disprezzo di determinate pseudo-élites, sulle cui responsabilità nel declino del Paese sarà bene, prima o poi, interrogarsi, e ha mostrato una resilienza e una propensione al dialogo e all’ascolto che non si palesava nella politica italiana dai tempi del primo governo Prodi.

Comunque vada a finire questa storiaccia, il cui esito è tutt’altro che scontato, la speranza di un futuro migliore e di un ritorno al fisiologico confronto politico fra una sinistra degna di questo nome e una destra che ci si augura diversa rispetto a quella vista in scena finora ha ripreso corpo dopo le parole pronunciate, come passo d’addio, da un galantuomo che troppi, per troppo tempo, hanno sottovalutato.

Qualcun altro, che ha provato a mandare in frantumi l’alleanza fra PD, 5 Stelle e LeU, aprendo una crisi inspiegabile e facendo perdere all’Italia settimane preziose per far fronte al Coronavirus e alle necessarie risposte da fornire alla Commissione europea in merito alle modalità di gestione del Recovery Fund (la cui ingente somma, 209 miliardi di euro, è un altro merito da ascrivere alla tenacia e all’abilità diplomatica di Conte nelle trattative con i partner internazionali), farebbe bene a riflettere su una celebre massima di Abraham Lincoln: “Si può ingannare un uomo per sempre e tutto il mondo una volta ma non tutto il mondo per sempre”.