(Flavia Perina – linkiesta.it) – Li vedo in faccia, è come se li conoscessi uno a uno, i 230 deputati e 115 senatori che, in caso di vittoria del Sì, saranno scartati dalle liste elettorali dei partiti. Io, ad esempio, in Parlamento non sarei mai entrata e con me molte donne arrivate dalla società civile (a sinistra, per dirne una, Paola Concia. A destra, per dirne un’altra, Giulia Bongiorno), cioè quelle senza il tipo di rapporto organico con le burocrazie politiche che ti fa conquistare un collegio o un capolistato.

Poi, ovviamente, sparirà chi non “porta preferenze”: i Giggino ‘a Purpetta o i Batman Fiorito prevarranno senza eccezione su chiunque non possieda analoghi e documentati panieri clientelari. La terza categoria espulsa sarà quella dei candidati a basso reddito. Il ticket d’accesso alle candidature già ora è piuttosto caro: nel 2018, secondo molte inchieste giornalistiche, si andava dai 30mila euro richiesti (in anticipo) da FI e dal Pd ai 10mila dei partiti più piccoli, con l’aggiunta di cifre dai 20 ai 60mila euro per organizzare la propria campagna elettorale. Il taglio, come è ovvio, aumenterà le tariffe e gli immaginabili vincoli con gli sponsor che si faranno avanti per sostenerle.

Il dibattito sul referendum, in questa ultima settimana, dovrebbe trovare un po’ di spazio – oltre ai sacrosanti ragionamenti di ordine costituzionale – anche per questi elementi pragmatici e per la domanda: avremo un Parlamento più efficiente o semplicemente più sottomesso ai capi e ai finanziatori (palesi o nascosti) dei singoli parlamentari?

Tutta l’esperienza politica italiana fa propendere per la seconda tesi. La consistenza numerica delle nostre Camere è stata, finora, uno degli elementi che ha obbligato i partiti a fare scouting e ha consentito l’ingresso in Parlamento di figure nuove, talvolta eterodosse, spesso portatrici di specifiche competenze e coraggiose nel difenderle. Giulio Carlo Argan, Tullio Gregory, Edoardo Sanguineti, Leonardo Sciascia, Stefano Rodotà, Domenico Fisichella, Marcello Pera, Piero Melograni, Lucio Colletti, Saverio Vertone, Mario Baldassarri: sono alcuni dei nomi che destra e sinistra avrebbero senz’altro accantonato per mancanza di posti nel mini-parlamento che il Fronte del Sì oggi ci propone.

Certo, tra quei 230+115 sacrificati all’ordalia populista è immaginabile anche molta zavorra. Ma tendo a credere che le amiche del cuore dei Segretari, i loro avvocati, i loro commercialisti, i titolari del loro stabilimento balneare, resteranno nell’elenco dei “salvati” mentre quello degli “scartati” comprenderà piuttosto gli infedeli alla linea e i sospettabili di eresia.

Io, che molti anni fa mi iscrissi alla categoria, ho un’idea piuttosto precisa di ciò che perderemo amputando il Parlamento, a cominciare dal sale dei voti in dissenso e delle espressioni di autonomia intellettuale e politica che sono il cuore della democrazia e ne hanno salvato il senso anche nei momenti bui. Voterò no anche per questo, in difesa dei molti “irregolari” che ho conosciuto in tutti gli schieramenti, dei dissidenti, dei visionari, dei portatori di autorità morale più che di preferenze: sono già pochissimi, ora rischiano di sparire del tutto.