(Alessandro Gonzato – Libero Quotidiano) – Uno studio di 29 pagine realizzato da due giovani ricercatori italiani ha messo in correlazione il tasso di mortalità legato al Covid con le condizioni socio-economiche delle vittime. Lo studio ha evidenziato un aumento dei decessi nelle aree periferiche, più povere e dove risiedono famiglie numerose.

I ricercatori sono Francesco Armillei, laureato con lode all’Università di Bologna, studente magistrale in Economia e Scienze Sociali alla Bocconi, coordinatore di Tortuga – primo think-tank di studenti di economia d’Italia – e Francesco Filippucci, dottorando alla Paris School of Economics, ricercatore del progetto localopportunitieslab.it, socio fondatore di Tortuga.

Hanno preso in esame le morti dello scorso marzo (rispetto a quelle dello stesso periodo 2017-2019), quando il contagio era in ascesa e ancora non conoscevamo bene le contromisure più efficaci, soprattutto per colpa dell’Organizzazione mondiale della Sanità (prima gli asintomatici non erano in grado di trasmettere il virus, poi sì, quindi il balletto sull’uso delle mascherine) ma anche per la scarsa preparazione e l’inerzia del governo italiano.

Per il premier Conte, l’Italia era «prontissima» e le conseguenze le abbiamo vissute sulla nostra pelle. Vediamo nel dettaglio i fattori che stando allo studio nostrano hanno inciso sulla mortalità. I dati analizzati sono stati presi dalle ultime statistiche pubblicate dall’Istat. Il tasso di mortalità legato al Covid è maggiore all’interno di famiglie numerose e tra gli operai, soprattutto del settore tessile.

LA DENSITÀ ABITATIVA Un altro indicatore evidenzia che c’è stato un numero più alto di decessi tra chi viveva in abitazioni dal valore più basso. Il Covid ha mietuto meno vittime nei Comuni con reddito medio e istruzione più elevati e un sistema di mobilità più efficiente. Si sono registrati meno decessi tra i lavoratori nel settore dei servizi e del commercio. Contrariamente a quanto è emerso finora nella stragrande maggioranza dei dibattiti televisivi sulla pandemia, nelle zone con maggior densità abitativa non c’è stata per forza una crescita della letalità.

Un altro aspetto dello studio è legato alla stratificazione geografica. Analizzando le regioni più colpite all’inizio della pandemia (Lombardia, Piemonte, Liguria, parte dell’Emilia Romagna e la parte più a Nord delle Marche – sempre in base all’aumento di decessi rispetto al 2017-2019) si nota che in Comuni vicini l’andamento della mortalità è molto simile: primo dello scoppio della pandemia (in questo caso gli esempi più lampanti sono Bergamo, Cremona e Lodi) la mortalità non aveva quasi nulla a che vedere con quella delle città circostanti.

MODELLO PER IL FUTURO Da osservare poi che all’interno delle stesse regioni il dato è molto eterogeneo, con picchi di decessi legati alle condizioni socio-economiche. I ricercatori, incrociando gli stessi elementi, hanno anche realizzato un sistema predittivo: questo mostra che in caso di seconda ondata le aree periferiche potrebbero avere una mortalità maggiore dallo 0,1 allo 0,3%, indipendentemente dalla vicinanza con altri comuni. Tale schema potrebbe aiutare a individuare specifiche aree a rischio predisponendone per tempo la chiusura, qualora fosse l’unica soluzione possibile.

Anche i dati che arrivano dall’America ci dicono che il virus è letale sopratutto tra la popolazione meno abbiente. È stato il Washington Post uno dei primi quotidiani a metterlo in evidenza. A incidere in larga parte è la possibilità di accedere al servizio sanitario. La popolazione più colpita è quella afroamericana. A New York, nei quartieri poveri, la mortalità è doppia.

I dati peggiori provengono dal Bronx. Seguono Queen, Brooklyn, State Island e infine Manhattan. Il virus ha raggiunto picchi elevatissimi di moralità anche nelle periferie di Buenos Aires (in Argentina), a Rio de Janeiro (Brasile) e soprattutto nelle baraccopoli di Bogotà, capitale della Colombia.