Si proroga (con il no Ue). Il provvedimento del governo criticato dalla Ragioneria dello Stato: in contrasto con l’Europa e lede gli interessi pubblici

La Ragioneria dello Stato non è d’accordo? Amen. È questa la risposta del governo alla strigliata ricevuta sulla ennesima proroga per altri tredici anni delle concessioni balneari che una direttiva dell’Ue vieta dal lontano 2006. Quando la Juventus giocava in serie B. Tutto regolare, per carità: entro certi limiti la politica può fare ciò che vuole. Anche infischiarsene dei conti e delle regole europee. Il segnale, però, lascia l’amaro in bocca. Sia chiaro: in questi mesi tremendi per l’economia dopo il coronavirus neppure gli europeisti più rigidi, i liberisti più ortodossi, gli ambientalisti più esigenti avrebbero storto il naso se l’Italia, dopo aver recepito con quattro anni di ritardo nel 2010 la cosiddetta «direttiva Bolkestein» e avere da allora tirato in lungo di rinvio in rinvio, avesse deciso una nuova proroga. Limitata nel tempo, però. Con buon senso. Concedere una dilazione così lunga fino al 31 dicembre 2033 per un totale di ventitré anni rischia di sembrare una furbizia a chi quelle regole comunitarie sulle concessioni balneari le ha già applicate. Come, ad esempio, la Francia. Dove i comuni hanno preteso e ottenuto di incassare, per le spiagge demaniali che appartengono a loro, assai più di una volta. A partire da plages celeberrime come quelle della Costa Azzurra.

La sentenza della Corte Ue

Una sentenza della Corte di giustizia Ue del luglio 2016, del resto, è netta: «Il diritto dell’Unione osta a che le concessioni per l’esercizio delle attività turistico-ricreative nelle aree demaniali marittime e lacustri siano prorogate in modo automatico in assenza di qualsiasi procedura di selezione dei potenziali candidati». Molti dei 30 mila concessionari italiani, che magari hanno quell’unica fonte di reddito, trasmessa a volte di padre in figlio, rischiano di uscirne con le ossa rotte? Sicuramente. Ed è giusto che chi governa ne tenga conto. Tant’è che la destra pare condividere, per una volta, la linea giallo-rossa. Anzi, il testo definitivo del Decreto rilancio si rifà direttamente, in copia incolla, a «quanto disposto nei riguardi dei concessionari dall’articolo 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145».

Un giro d’affari da 15 miliardi

Per capirci: la proroga alla fine del 2033 decisa dal governo Conte versione giallo-verde, fortissimamente voluta dall’allora ministro del Turismo, il leghista Gian Marco Centinaio, e dal cliente del Papeete Matteo Salvini. Il tutto prima (ripetiamo: prima) della pandemia. Ma dopo il dossier di Legambiente sulle 52.619 concessioni demaniali marittime. Dossier che spiegava come nel 2016 (ultimo anno con dati disponibili) lo Stato avesse incassato «poco più di 103 milioni di euro dalle concessioni a fronte di un giro di affari stimato da Nomisma in almeno 15 miliardi di euro annui». Con casi limite come la Costa Smeralda: «Per la spiaggia di Liscia Ruja, l’hotel Cala di Volpe paga 520 euro l’anno». In totale «per le 59 concessioni del Comune di Arzachena lo Stato incamera canoni 19 mila euro l’anno». Numeri sbalorditivi. Al punto che lo stesso Flavio Briatore spiegò al Corriere che «gli affitti delle concessioni balneari andrebbero rivisti tutti. E almeno triplicati». «Parlo anche di me», aggiunse tranquillo, spiegando d’essere partito per il Twiga da un canone pagato dal vecchio concessionario di 4.322 euro l’anno per salire fino a 17.619». A fronte di un fatturato intorno ai quattro milioni.

La Ragioneria di Stato

Certo, non è il caso di migliaia di proprietari di stabilimenti che tirano avanti con vecchie concessioni e faticano a fare un po’ di investimenti obbligati. Ma va detto: quanti altri imprenditori giovani e ricchi di entusiasmo e di idee vengono tagliati fuori per decenni da proroghe continue, eterne e blindate? Davanti all’ennesima, la Ragioneria dello Stato ha avuto da ridire ufficialmente: «Le disposizioni in esame non risultano in linea con l’ottimale utilizzo dei beni pubblici anche in funzione della futura destinazione degli stessi a fini diversi, nel rispetto dell’interesse pubblico generale, in quanto consentirebbe la prosecuzione nell’utilizzo dei beni del demanio marittimo da parte dei medesimi soggetti, anche quando siano stati già avviati o siano da avviare i procedimenti per la devoluzione», cioè l’acquisizione diretta «senza alcun compenso o rimborso» delle opere «non amovibili eventualmente erette sulle aree demaniali». Di più: qualche proroga «consentirebbe di continuare l’utilizzo i beni del demanio marittimo anche da parte dei concessionari non in regola con il pagamento del canone di concessione demaniale, in chiaro contrasto con l’art. 47 c.n. che annovera l’omesso pagamento del canone tra le ipotesi di decadenza dalla concessione, e con intuibili ricadute sfavorevoli sul gettito delle entrate».